Troppo vecchio, troppo molle, troppo centrista, ne ho sentite parecchie su Biden in questi mesi, eppure sin dai primi passi nelle elezioni primarie ho sempre sostenuto che fosse il favorito ed anche il candidato con le maggiori probabilità di sconfiggere Trump (ne sono testimoni i miei studenti).
Vi spiego perché: uno sfidante deve essere in grado di tracciare una chiara differenza con l’avversario e trovare la giusta narrativa. Vi ricordate quale è stato l’avversario più ostico per Berlusconi? Si, esattamente Prodi che per storia e stile di comunicazione rappresentava esattamente l’opposto dì Berlusconi. Biden è un politico da mezzo secolo, ma non è percepito come un uomo di quell’odiato establishment che quattro anni fa Trump ha collegato facilmente ad Hillary Clinton.
Dal primo giorno giorno Biden ha identificato nella “battle for the soul of the nation” la ragione fondamentale della sua candidatura. Un messaggio che gli permetteva di fare appello ai valori fondanti della nazione, ad usare il “noi” contro un candidato che al contrario usava sempre di più l’io e a non uscire dallo schema polarizzante di quattro anni prima. I toni moderati e allo stesso tempo il referendum innescato su Trump gli hanno permesso di tenere insieme un elettorato molto ampio che andava dai movimenti più a sinistra fino ai tanti repubblicani che non si riconoscevano più in un partito a trazione trumpiana. Non a caso ha scelto una candidata alla vicepresidenza che, pur rappresentando una delle minoranze da mobilitare, era tutto tranne che una radicale.
Ha unito il partito promettendo spazio nella futura amministrazione ai suoi avversari nelle primarie, ma ha evitato attentamente le tematiche in grado di dividere la sua ampia coalizione sociale. Sicuramente è stato di aiuto il tema Covid che ha fatto il paio con il messaggio di cura e di battaglia per l’anima della nazione. Ci sarebbe poi da dire molto sulla strategia che ha identificato correttamente i “battleground states” a partire dal ristabilire il blue wall (la cui defezione era costata la presidenza ad Hillary) e a puntare su stati come la Georgia che non a caso ha visto la presenza negli ultimi giorni di Obama (inizialmente prevista in North Carolina). Alla fine dei conteggi il distacco nazionale sarà facilmente di 5-6 punti e questa volta i sondaggi si saranno dimostrati corretti.
Ora inizia la parte più difficile, superare le profonde divisioni emerse nel Paese e dimostrare che non solo si può vincere evitando la polarizzazione e uno stile di comunicazione urlato, ma che si può anche governare attraverso l’antica e nobile arte del compromesso. Perché la popolarità può aiutare a vincere, ma si governa con il consenso. E l’arte del consenso presuppone la capacità di trovare soluzioni condivise.
Marco Cacciotto è un consulente politico e docente di Marketing politico e comunicazione elettorale presso l’Università di Torino