Noi, la generazione che ha vissuto il post terremoto del 1980
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“…è accaduto il 23 novembre 1980: novanta interminabili secondi di movimento sussultorio e ondulatorio, intensità dieci nella scala Mercalli. Un flash di apocalisse anticipata. Chi c’era non dimentica. Per riportare indietro le lancette degli orologi, basterebbe il nome di qualche località, le più tristemente note: Balvano, Pescopagano, Conza, Sant’Angelo dei Lombardi, Lioni… Quell’evento non ha semplicemente provocato migliaia di morti e di dispersi, non ha solo martoriato la Basilicata e la Campania, ma ha ammazzato un mondo, ha decretato la fine di un’epoca e il paesaggio geografico che gli smottamenti e le frane hanno ridisegnato, i caratteri architettonici e antropologici venuti fuori dalla polvere di quei giorni (un orizzonte di piccoli distretti industriali, spesso gestiti dai governi locali in termini approssimativi e problematici, un coacervo di comunità alloggiate in prefabbricati momentanei e poi diventati permanenti, un groviglio di svincoli stradali che hanno rotto la dolcezza delle colline e dei boschi) contengono i segni di un diverso ordine geografico e morale, in cui gli antichi centri abitati hanno smesso di essere presepe ma non sono diventati città, hanno cessato di sentirsi parte di una mitogeografia arcaica senza assumere espressione finalmente compiuta dell’idea di moderno.”

(Giuseppe Lupo in Civiltà Appennino – l’Italia verticale tra identità e rappresentazioni – Donzelli 2020)

Un evento tragico che, in un Appennino inquieto – già segnato da abbandoni e concrete utopie –, ha scolpito la memoria e determinato storie, idee di ricostruzione ed inchieste, unito il Paese nella solidarietà ma anche diviso nell’utilizzo delle risorse. Un sisma in un terremoto che già da oltre un secolo interrogava la classe dirigente sull’Unità incompiuta per una questione meridionale che, tra apocalittici ed integrati, rimane tutt’ora aperta. Cosi come aperta rimane la necessità, per tante geografie, di ridurre divari sociali e territoriali.

Avevo tre anni nel 1980. Ho un ricordo molto vago di quegli attimi, dei giorni e dei mesi successivi. Ma la mia generazione ha camminato durante l’infanzia e l’adolescenza tra le macerie e la ricostruzione, accompagnata dalla riproposizione dell’urlo “FATE PRESTO” de Il Mattino e le immagini della visita, direi paterna, del Presidente Pertini.

E come se il tempo, breve, e le istituzioni, vicine, avessero costituito i binari su cui far partire il treno del futuro. Ma per molti questo viaggio è stato di sola andata, lontano dalla propria terra.

Da quegli anni, grazie a Zamberletti, è nata la Protezione Civile: da un evento tragico prese vita un’esperienza unica al mondo, un collante di una comunità in emergenza, una miscela di ricerca, competenze, capacità operativa e solidarietà.

In Basilicata è nata l’Università.

Noi siamo la generazione che ha vissuto il terremoto del 1980 con meno memoria di quei tragici momenti e più “ricordo del futuro che abbiamo immaginato nel passato”. Tra trenta, quarant’anni i nostri figli che stanno vivendo questo sisma virale, immaginano, oggi, ancor di più un futuro con una scuola e una sanità di qualità per tutti, un diverso rapporto tra uomo e ambiente, meno divari sociali, economici e territoriali. Con diverse percezioni e linguaggi queste cose sono scolpite nelle loro “memorie di futuro”, per utilizzare un concetto di Paolo Jedlowski.

Immaginano di uscire fuori dal distanziamento, non tornarci mai più. Ecco perché la nostra generazione è chiamata ad un sussulto di responsabilità e di coraggio, dando una direzione alla memoria e un senso al futuro.


Piero Lacorazza, direttore Fondazione Appennino

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