Il suo primo incontro con la musica non è stato dei più felici. Il suo primo maestro di Conservatorio non ha riconosciuto il suo talento, ma il Jazz lo ha salvato. La sua tostaggine gli ha permesso di elaborare quegli anni vissuti nella paura e nel senso di inadeguatezza. Bravo, preparato, ma anche umile, di musica vive – vantando una carriera segnata da collaborazioni con artisti del calibro di Chet Baker, Don Cherry, Dizzy Gillespie, Lester Bowie, John Cage, Enrico Pieranunzi, Toshiko Akyhoshi – e fa vivere soprattutto i bambini.
Parlo di Massimo Nunzi, romano, classe ’62, trombettista, autore di una dettagliata e appassionante storia del Jazz per Laterza e Repubblica – L’Espresso, di produzioni orchestrali per Radio France, arrangiatore e direttore di orchestra per festival musicali internazionali, che nel 2003 si è inventato un percorso divertente per avvicinare i più piccoli al suo grande amore: il jazz. E’ il Giocajazz, diventato una formula di successo. Di che si tratta e come è nata l’idea? Facciamoci spiegare tutto da lui.
“Giocajazz l’ho creato pensando a quel meraviglioso, primo meccanismo creativo che tutti da piccoli abbiamo vissuto e creato, il gioco. Giocajazz ha successo proprio perché spinge naturalmente i bambini a entrare nella musica e viverla come un qualcosa di completamente naturale e presente nelle loro vite da sempre. Sono fermamente convinto che il jazz sia un linguaggio che assomiglia molto e sia molto vicino al gioco dei bambini. Basta guardare un trio jazz: pianoforte, basso e batteria. Si nota immediatamente quello che viene definito in termine tecnico: l’interplay. Un linguaggio muto, fatto di sguardi ed interazioni. Bill Evans non a caso ha ispirato il suo brano Interplay a questo concetto. I bambini quando giocano fanno qualcosa di serissimo per loro e spesso si arrabbiano se gli altri non seguono bene la linea prefissata non si sa da chi, ma che è quella e basta. Il loro rapporto col gioco è ora e qui e disegnano continuamente traiettorie di botta e risposta, di interazione fisica e psichica, la linfa primaria del linguaggio jazzistico. Spesso se noi li guardiamo giocare con occhi da adulti, non capiamo assolutamente nulla di quello che fanno mentre loro, con alcune grida, occhiate, movimenti veloci e misteriosi, riescono a comunicare ad un livello completamente diverso da quello che riconosciamo con l’approccio razionale. Lo stesso fanno i musicisti di jazz”.
Ci fai un esempio?
“Quando Miles Davis ribatte una nota medio alta e Herbie Hancock la ripete nell’ottava bassa del pianoforte, la sviluppa, magari riprendendola nel suo solo all’ottava acuta, capiamo che c’è qualcosa che va oltre la comunicazione tradizionale. Forse non a caso Miles Davis ha chiamato un suo disco E.S. P. col suo quintetto storico, Shorter, Hancock, Carter e Williams, un quintetto davvero telepatico. L’interplay è questo. E come la telepatia, un haiku giapponese, un piccolo folgorante racconto, un segno pittorico unico ed irripetibile, svolto con un unico gesto che non tornerà più. Nel disco che ho fatto per i bambini, Giocajazz, ho scritto un brano che si intitola: Il Jazz è una nuvola. Il jazz infatti, come una nuvola, non si può mai ripetere uguale a se stesso. Anche nelle alternate takes di uno stesso brano, non si suonerà nello stesso modo, anche se il brano è lo stesso. Questo livello di empatia esiste anche nella musica classica e in quella contemporanea. Esiste anche nel rock e nel pop, e chiaramente più è ampio il margine di improvvisazione disponibile e più sarà possibile nuotarci dentro felici. Tornando al trio jazz, esso ha, come nel gioco dei bambini, dei temi musicali, delle song, che vengono sviluppati. Autumn Leaves, Summertime, Caravan, Four. Anche i bambini hanno dei temi che vengono sviluppati tipo cowboy e indiani, astronauti, e qualunque altro tipo di gioco che ovviamente io non conosco vista la mia non più tenera età. Il tema serve a sviluppare il percorso creativo. Sia nel jazz che nel gioco”.
Mi dicevi che ti è capitato di vedere le magie che riesce a fare il jazz nella Sala Petrassi dell’Auditorium Parco a Roma.
Sì, mi è capitata l’esperienza eccezionale di far cantare Naima di Coltrane a 700 bambini che erano perfettamente intonati. Questa cosa è stata scioccante e mi ricordo che anche i miei musicisti sono rimasti spiazzati, dal momento che i bambini non avevano mai sentito questo brano in vita loro. Ma il brano è talmente bello e spirituale che con la band avevo creato la condizione per cui tutti lo sentissero familiare. Così è stato. Lo hanno riconosciuto come una cosa loro e compreso appieno, pur non avendolo sentito mai prima. Ricordo che il compianto Carlo Conti ci suonò un solo che toccò tutti. I bambini erano estasiati.
Come è nato Giocajazz?
Avevo già sviluppato Jazz istruzioni per l’uso per i teatri di cintura del Comune di Roma che poi è approdato al mitico teatro Sistina per una memorabile serie di quattordici concerti tutti esauriti grazie all’immenso Pietro Garinei. Jazz istruzioni per l’uso ha avuto un tale successo che il Comune di Roma mi ha chiesto un nuovo progetto, ma per le nuove generazioni. Così ho creato Giocajazz. Ho sempre sentito dentro di me che la musica è un patrimonio universale di tutti gli uomini. E quindi mi sono sentito in dovere di dimostrarlo. La musica può essere insegnata senza fatica e con grande divertimento. Purtroppo, io ho avuto grossi problemi con il Conservatorio. La sensazione di punizione, dolore, competizione trasmessa ai bambini mi ha segnato profondamente in quegli anni. Tutto era scuro e tragico. La gioia era del tutto assente, almeno per me. C’è da dire che eravamo anche in tanti. E questo tendeva a scremature numeriche. Ho saputo anni dopo da un mio insegnate di composizione che in quel periodo c’era l’ordine di mandare a casa un po’ di gente, visto che eravamo troppi. La grande quantità di bambini, che si iscrissero al conservatorio negli anni ‘70, fu causata dal fatto che all’epoca la televisione italiana faceva molti programmi di musica, anche molto complessa e colta.
Che altri ricordi hai di quel periodo?
Beh, un ricordo vivido del grandissimo flautista Severino Gazzelloni, ospite di tantissime trasmissioni televisive dell’epoca. Ho scoperto Bach in una trasmissione in cui Gazzelloni duettava con Mina. Ho visto Berio che dialogava con Messiaen… roba forte…non capivo niente ma arrivava, visto lo spessore dei signori in questione. Questo tsunami di suoni condizionò molto la mia generazione e la avvicinò a tutte le musiche, non solo a quella commerciale che, comunque, era di altissimo livello: Endrigo, Bindi, Vanoni, Modugno, cantavano brani affascinanti e Mina, duettava in tv anche con Toots Thielemans all’armonica in Non gioco più. A casa si ascoltava poca musica. Fondamentalmente alla radio. Non avevamo un giradischi. Io sono umbro anche se non di nascita, di famiglia. Mio nonno venne a Roma a lavorare negli anni ‘30. Ma continuava ad andare sempre ad Otricoli, il nostro comune di origine. Lì dava sfogo alle sue passioni: coltivare la terra e suonare il bombardino. Ed è stato lì, ad Otricoli, che a sei anni ho cominciato a suonare la cornetta. Poi fui mandato al Conservatorio perché avevo un discreto talento, ma una volta entrato lì, dopo aver fatto un’ammissione col massimo dei voti, mi sono trovato in una situazione infernale. La persona, che non voglio neanche definire maestro per non mancare di rispetto alla nobile categoria, non suonava più la tromba.
Non suonava?
Nessuno di noi lo ha mai visto suonare. Oltre ad essere un essere disgustoso era molto violento ed ignorante e ci faceva dare lezioni da quelli più grandi e più bravi. Perché non aveva voglia di fare niente. Leggeva il giornale ed il crimine è che glielo lasciavano fare. Quindi in realtà io, essendo proprio l’ultimo degli ultimi, perché stavo pure un anno avanti, non ho mai ricevuto lezioni. Tutto questo corredato da una serie di storie veramente terrificanti, che non mi va di raccontare. Forse ho conosciuto e suonato con alcuni dei trombettisti più grandi del mondo per fare a tutti la stessa domanda: Dove hai studiato? Per esempio, il mio amico Malcolm McNabb, uno dei più grandi trombettisti del mondo, solista con Zappa – che gli ha dedicato The Bebop Tango- Jerry Goldsmith, John Williams e mille altri, ha studiato con James Stamp, che è stato uno dei più celebri insegnanti di tromba della storia e che abitava all’angolo di casa sua. Anche Jerry Hey, trombettista ed arrangiatore straordinario – basti pensare che ha scritto i fiati e gli arrangiamenti per Thriller di Michael Jackson– ha studiato con Bill Adams, che abitava a due blocchi da casa sua. La vita è fatta di queste opportunità. Non a tutti capitano. Fondamentalmente, io ho studiato da autodidatta e preso lezioni qui e là, però ho cominciato a suonare subito, e a guadagnare immediatamente”.
Chi ti ha aiutato nel tuo percorso?
“Il mio percorso artistico è sempre stato improntato alla creazione di progetti originali che propongo o per i quali vengo chiamato da Enti o Istituzioni concertistiche. Per realizzarli, sia che siano progetti esclusivamente musicali, legati alla musica da cinema, da teatro o a qualsiasi altro linguaggio musicale, ho un gruppo di musicisti di fiducia. Oppure orchestre che mi vengono offerte, come ad l’Orchestra Sinfonica di Radio France o gruppi strumentali pre-esistenti per cui scrivo. Posso contare su un pool di almeno 200 musicisti, che cerco di coinvolgere nelle situazioni che sono più nelle loro corde. Non tutti i musicisti desiderano suonare qualunque tipo di musica. Per questo motivo devo selezionare quelli più empatici e coerenti con lo stile che voglio realizzare. Ad esempio, ho fatto un gruppo che fa musica mia, tratta dalle mie colonne sonore e da tutta la musica teatrale e radiofonica che ho scritto negli ultimi anni e lì ho, ad esempio, Fabio Zeppetella alla Chitarra e Elisabetta Antonini alla voce, Domenico Sanna al piano, Marco Valeri alla batteria e Giulio Scarpato al contrabbasso. Questo proprio perché mi interessa valorizzare gli artisti per quello che sentono più coerente con il loro spirito musicale. L’aiuto che mi danno è per le competenze. Per Giocajazz chiaramente chiamo musicisti che siano in sintonia con quel linguaggio. Che se la sentano di suonare canzoni semplici ed allegre. Non tutti i musicisti sono disposti a suonare questo tipo di musica. E quelli li chiamo per altri progetti”.
Torniamo a Giocajazz. I risultati? Due band, un cd. E’ così? E come può essere declinato il tuo progetto con i bambini, soprattutto in questa fase?
“Giocajazz è un format e lo posso fare ovunque, anche con altre orchestre, in altre parti d’Italia. Purtroppo non ho potuto continuare il lavoro con la Jazz Campus Kids Orchestra perché a febbraio ci siamo dovuti fermare, ma nel periodo precedente il Covid, ho realizzato una versione di Giocajazz a Palermo per il Teatro Biondo, grazie alla direzione artistica di Pamela Villoresi, artista visionaria e creativa. Lì abbiamo fatto un laboratorio di sei incontri ed un concerto memorabile con 90 bambini provenienti da tutti i quartieri di Palermo e con i musicisti del Brass Group, anche loro di Palermo. È stata una delle più belle esperienze della mia vita. Poi due anni fa ho lavorato con Save the Children, realizzando un mio progetto con 200 giovani delle case famiglia e di molte etnie, intitolato: Sing your song. Li ho motivati a scrivere la loro musica e le loro parole e a cantare e ballare all’Auditorium con un’orchestra di grandi talenti del jazz. Ad Umbria jazz nel 2018 ho usato un’ Orchestra perugina per fare due puntate di Giocajazz. Come vedi, è un tema che posso declinare in qualunque modo, con qualunque forma di orchestra. In continua evoluzione”.
Quanti bambini si sono accostati al jazz grazie a te? Qualcuno sta facendo strada?
“Diciamo che fino ad oggi credo di aver presentato il Jazz attraverso Giocajazza moltissimi bambini…non so dire quanti. Considerando che abbiamo realizzato dal 2003 al febbraio 2020 qualcosa come una trentina di concerti di media all’anno. Con una presenza media di circa 200 bambini. E’ certo che alcuni siano bravissimi sin da piccoli. Nell’orchestra dell’Auditorium c’è una bambina di nove anni che suona il flauto divinamente. Farà una grande strada. Ma ce ne sono tanti di talenti, ancora nascosti nell’orchestra. Non tutti sbocciano subito. Anzi, sbocciare troppo presto può essere un problema. Alcuni hanno bisogno di tempi lunghi. Ma che fretta hanno? Molti invece si sono presentati direttamente all’Auditorium quando facevamo Giocajazz con lo strumento e si sono messi a suonare con noi. Uno di questi, Leonardo, trombettista, sta già facendo passi da gigante. Io, comunque, li seguo tutti. Quando ero all’Aquila qualche mese fa, per la manifestazione Il Jazz nelle terre del sisma, è successa una cosa molto carina: si è avvicinata a me una ragazza. Mi ha detto che ha iniziato ad ascoltare il jazz ed è diventata appassionata fino a diplomarsi in Composizione grazie proprio a Giocajazz a cui ha assistito a cinque anni. Sono stato felice. Sicuramente anche la mia serie I Grandi del jazz in DVD, fatta per Repubblica ed Espresso con la regia di Elena Somaré è molto usata in tutti i Conservatori italiani, ed infatti ogni tanto i colleghi mi inviano messaggi di ringraziamento perché sono riusciti a superare esami molto complessi grazie a queste 24 ore di filmato. Invece, alcuni di quelli che il jazz lo insegnano, la usano come un elemento fondante del loro percorso. Mettono il dvd e poi , dopo 55 minuti, rispondono alle domande dei ragazzi. Mi fa molto piacere che la serie possa essere utile, tuttavia mi dispiace che non compaia nei materiali di testo ufficiali. Tuttavia, l’importante è che sia utile. Quindi, tornando alla domanda, ci sono sicuramente bambini che sono più sensibili e poi seguono la strada della musica. Ma sono convinto che anche quelli che non faranno i musicisti avranno tantissimi benefici dal seguire Giocajazz e la musica in senso totale”.
Al di là del Cd cosa imparano realmente i bambini?
“I bambini imparano che il jazz è fare squadra, è come lo sport e assomiglia al calcio, dove tutti hanno un peso solo nella misura in cui riescono a interagire con gli altri, dando il loro supporto con generosità. Il fatto di rinunciare all’egocentrismo e all’individualismo, che sono inaccettabili nel jazz, permette loro di comprendere il lavoro di squadra. Non è una cosa da poco. Ma la più grande gioia per me è vederli cantare, anche molto piccoli con grande swing. La cosa che mi ha commosso di più non mi è stata detta da bambini, ma da tre padri. I loro figli avevano delle gravissime patologie e nonostante questo, riuscivano ad interagire con noi. I padri, visibilmente commossi, mi hanno detto che questo non era mai successo. E mi ha riempito di gioia pura. È una cosa per la quale vale la pena vivere”.
Sarà sempre e solo jazz ?
“Il jazz l’ho scelto perché sapevo che avrebbe funzionato perfettamente con i giovani. Non ho mai avuto alcun dubbio. E’ una musica che assomiglia alla vita ed è molto aperta e spirituale pur essendo reale, divertente e tangibile”.
Come ti stai sta organizzando in questi tempi con i tuoi bambini?
“E’ molto difficile poter organizzare qualcosa in questo momento. Esattamente un anno fa ho selezionato 20 giovani musiciste e musicisti per formare un’orchestra di bambini per Casa del jazz ed Auditorium : la Jazz Campus Kids Orchestra. Il problema è che se noi non stiamo nello stesso luogo, non possiamo suonare coordinati. Quindi stiamo cercando con l’Auditorium di ragionare sul come poter fare. È un periodo molto penoso, purtroppo. Peraltro, nel periodo in cui facevamo la Jazz Campus Kids orchestra, i bambini seguivano anche una storia del jazz e siamo riusciti in 10 lezioni a montare sei pezzi. I ragazzi leggono a malapena la musica, ma i sei pezzi completi erano perfetti. Eravamo molto felici. Ma non ci stiamo perdendo d’animo. Stiamo cercando di inventarci qualcosa di facile da realizzare ed efficace. Sono sicuro che ci riusciremo”.
Alcuni insegnanti, medici, genitori sono preoccupati perchè in questo periodo spesso i bambini sono attaccati al pc. GiocaJazz potrebbe diventare uno scaccia pensieri, la giusta terapia a momenti di ansia e depressione di questa fase?
“Certamente se Giocajazz fosse portato in televisione e potesse essere visto, sarebbe un buon catalizzatore. Probabilmente potrebbe fare qualcosa di buono. Ha un alto valore educativo, ma è divertente. Se fosse visto sarebbe di qualche utilità, ne sono certo. Magari anche sul PC. Ma ci vuole una produzione che lo realizzi. Ora non c’é”.
Insomma, potresti diventare il maestro Manzi del Jazz. Ne hai parlato con il Governo?
“Non saprei a chi rivolgermi. Non saprei neanche da dove cominciare. Non ho mai avuto contatto con i politici. Servirebbero semplicemente uno studio televisivo e la possibilità di fare quello che faccio dal vivo. Probabilmente avrebbe un effetto molto forte. Chiaramente bisognerebbe aggiungere altri elementi per renderlo più televisivo. Ma la sostanza c’è tutta. Se ci chiamassero saremmo pronti”.
Tutti i bambini si possono iscrivere, possono partecipare al suo Gioca Jazz
Giocajazz è un format ed uno spettacolo e chiunque può parteciparvi. In più, può essere portato ovunque e può essere fatto con orchestre locali. Uno compra il biglietto, entra, interagisce con l’orchestra, canta, balla. E se ha uno strumento suona… Poi torna a casa felice… L’ho fatto anche in Francia in un’altra versione, perché mi capita spesso di andarci per lavoro.
Cosa è per te il Jazz oltreché “una nuvola”?
“Il jazz mi ha salvato la vita… Dopo l’esperienza tragica del Conservatorio, ascoltare una cassetta di Louis Armstrong e quella musica mi ha cambiato la vita. Non ho mai più smesso di amarla con tutta la mia anima… E di suonarla più che posso. È un esperanto musicale che arriva a tutti. Non ha limiti perché è una musica di pura comunicazione. Per questo ho creato jazz istruzioni per l’uso. Volevo che la gente capisse anche il jazz contemporaneo. Basta spiegarlo. Se io mi metto a spiegare la fisica quantistica partendo dai teoremi ultimi, probabilmente nessuno capirebbe niente. Se insegni con gradualità, diventa appunto un gioco e si possono comprendere pure Ornette Coleman e il free”.
Altri progetti?
“Tanti ma ormai, non so più che cosa pensare e spero proprio che si possa risolvere presto il problema della pandemia. E soprattutto non vedo l’ora di ricominciare a suonare la mia musica, declinata in tutte le sue forme. Dal jazz contemporaneo fino a Giocajazz. Questo è quello che io spero. Che tutto torni come prima… Del covid”.
Articolo apparso sul Blog di Cinzia Ficco TipiTosti.it
bella idea bravo non mi intendo di musica ma il gioca jazz mi piace comi idea la musica è cultura.