La svolta dei social network che diventano editori di contenuti
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La sospensione degli account di Donald Trump dai principali social network è stata decisa in un momento tremendo per la democrazia mondiale. Proprio sulle piattaforme più popolari il quasi ex presidente USA prima ha sobillato, poi spinto con toni incendiari i suoi sostenitori a una sommossa, che è puntualmente avvenuta.

Nei lunghissimi momenti dell’occupazione di Capitol Hill, Trump non ha, come si poteva sperare, fatto alcuna marcia indietro per fermare l’assalto che lui stesso aveva chiamato: ha continuato a gettare benzina sul fuoco, irresponsabilmente. A quel punto non c’era molto da fare: i suoi messaggi andavano fermati. La decisione presa quella sera prima da Twitter, poi dagli altri social è stata, evidentemente, una questione di necessità democratica. Chi ha preso quella decisione, in quel momento, ha fatto bene.

Passato il momento dell’emergenza, però, è chiaro che una decisione di questo peso ha implicazioni che non possono essere sottovalutate.

La vicenda nel suo complesso dimostra innanzi tutto quanto e fino a che punto la comunicazione pubblica dipenda ormai dalla discrezionalità delle piattaforme private. Per molti versi è la pietra tombale sull’idea dei social network come luoghi per la libera condivisione di contenuti (sempre che lo siano mai stati). Il gesto eclatante di “silenziare” il più potente capo di stato dell’occidente è il segnale che a questo punto le grandi piattaforme social hanno, di fatto, virato verso il ruolo di editori di contenuti. Un ruolo che peraltro hanno sempre sfuggito e di cui non mostrano alcuna intenzione di assumersi le responsabilità.

Del resto, i social si sono evoluti così: nascono come piattaforma di entertainment, si sviluppano come gigantesche trincee di informazioni polarizzate, gestiscono e lucrano su montagne di dati (per lo più senza condividerli), diventano canali di condizionamento dell’opinione pubblica, sfuggono praticamente a ogni norma, sfruttando la loro natura ibrida (se non sono media, se non sono solo puro intrattenimento, che cosa sono?), gelosamente custodita per i privilegi che garantisce.

Il caso di Trump ci dimostra che questa svolta dei grandi social (con le enormi implicazioni politiche che comporta) non può essere considerata una semplice conseguenza della violazione delle policy di Facebook e Twitter. Derubricare un fatto epocale come questo alla semplice applicazione delle regole contrattuali che ognuno di noi accetta quando si iscrive a una piattaforma, è una considerazione quanto meno ingenua.

Innanzi tutto, le policy dei social network tutto sono, tranne che chiare e rigorose. Per come sono scritte, avrebbero potuto giustificare, senza molti problemi, anche il ban degli account di Joe Biden, di Kamala Harris, o di Nancy Pelosi, ad esempio.

Ci sono margini di interpretabilità enormi: quelle stesse policy avrebbero potuto leggere, paradossalmente, le critiche del presidente eletto, della vicepresidente e di qualunque altro cittadino nei confronti di Trump come un attacco ingiustificato alle istituzioni democratiche degli Stati Uniti. Non è facile un’interpretazione univoca dei criteri che bollano come “violento” o “istigatore all’odio” un contenuto rispetto ad un altro. Diciamola chiaramente: se il proprietario di una o più piattaforme social fosse stato un sostenitore dell’attuale presidente USA, le cancellazioni degli account avrebbero anche potuto essere quelle degli oppositori di Trump. Sarebbe potuta andare così. E quel proprietario avrebbe avuto il diritto di fare quelle scelte.

Dunque, nessun automatismo: le scelte fatte sono state scelte politiche.

Per questo è sempre più necessario che social come Facebook e Twitter non siano una terra di mezzo dove ogni iniziativa di contrasto alla violenza o alla disinformazione è delegata alle sole regole che loro stessi si danno.

Deve essere fatta chiarezza normativa sulla circolazione e gestione dei contenuti nei social network che, come i media tradizionali, decidono chi e cosa pubblicare, ma a differenza di questi ultimi non rispondono però di ciò che viene pubblicato.

Non siamo all’anno zero, per fortuna: in Europa già da anni ci si è posto il problema di definire la natura di queste piattaforme, in modo da poter inserire i social all’interno di un sistema normativo che garantisca sia l’autonomia delle policy di cui si dotano, sia le responsabilità che deve assumersi chi gestisce mezzi di comunicazione di enorme diffusione.

Va in questo senso la proposta del Digital Service Act della UE, presentata nello scorso dicembre e in via di approvazione, che prevede di introdurre, tra le altre cose, l’obbligo per le piattaforme che superano i 45 milioni di utenti (le cosiddette VLP – Very Large Platforms) di produrre report periodici sulla trasparenza delle loro azioni. Ad esempio, sui contenuti rimossi, sulle modalità impiegate dagli inserzionisti, sul funzionamento degli algoritmi impiegati. È previsto un audit esterno con enti certificatori nazionali e un board a livello europeo che li comprenderà in unico gruppo. Le piattaforme che non rispetteranno gli obblighi saranno sanzionate fino al 6% del loro fatturato.

Mi pare la direzione giusta, e spero che il nuovo quadro di regolamenti sia accolto con favore dalla più ampia comunità politica, sociale e culturale possibile. Si tratta di un primo, importante, passo  il cui obiettivo principale è la tutela della libertà di espressione e il diritto all’informazione, beni preziosi che possono essere garantiti solo da una comunicazione gestita in maniera trasparente e democratica.

Certo, non significherà la scomparsa di chi sfrutta la rete per comunicare e organizzare disinformazione e violenza. Chi non troverà spazio migrerà su canali alternativi, come già succede con i social della destra estrema complottista e populista (basti pensare a Parler e Gab) o al fatto che Trump abbia già annunciato il lancio di una sua piattaforma alternativa a Twitter. Su questo non c’è norma che tenga, la cultura dell’odio e della polarizzazione violenta non può che essere combattuta con una cultura alternativa della tolleranza e del pluralismo dei punti di vista.

Rimane però il punto, fondamentale: far sì che i grandi palcoscenici digitali dell’era contemporanea siano innanzi tutto sempre più inospitali per chi li voglia sfruttare con obiettivi dannosi per la comunità e che non si trasformino definitivamente in colossi informativi deresponsabilizzati, affidati alla sola discrezionalità personale dei loro proprietari.

 

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