La storia di un Paese è fatta anche di momenti nei quali è legittimo guardare al futuro con fiducia: momenti nei quali le più difficili contingenze sembrano stemperarsi in opportunità di sviluppo e di crescita collettive, dunque schiudendo prospettive anticipatorie di un Paese più competitivo e attrattivo, come l’intervento straordinario di recovery che integra un fondo di recupero da 190 e passa miliardi.
Un momento che incrocia la storia del nostro Paese ponendo scelte strategiche di direzione: dove vogliamo andare? Come vogliamo intercettare le sfide che il futuro ci presenta per essere pronti ad affrontarle. Ce la faremo se tutto il Paese, ogni interprete dei suoi macrodestini economici e sociali, sentirà propri alcuni grandi obiettivi strategici e porrà risultati di performance cui non sia possibile derogare.
Con la formazione del nuovo Governo a guida Mario Draghi, trova conferma la centralità del tema Pubblica Amministrazione, un tema caro al Pd e che richiede ora, anche in vista del pressante impegno dell’attuazione del Recovery Plan, una decisa e precisa azione politica. Ciò è cronicamente mancato in passato a favore di interventi spesso disaggregati e determinati sull’onda dell’emergenza, figli di una giustapposizione di progetti disparati, concepiti come monadi destinate a impattare sui territori in modo asistemico.
Oggi occorre tracciare un percorso complesso ispirato alla logica dei risultati attesi, in termini di tangibile miglioramento del benessere collettivo cui la progettualità integrata deve tendere: l’imbastitura politica, incardinata sulle necessità e sull’occasione di matrice europea, non deve cedere alla tentazione di proporre l’ennesima riforma epocale fatta di leggi, decreti, nuove norme, ma deve accompagnare le amministrazioni a vincere presto e bene le principali sfide che oggi hanno davanti per essere adeguate ai nuovi e pressanti bisogni del Paese.
Il disegno politico di cui l’Italia ha bisogno, rigenerato nelle linee programmatiche orientate verso una visione condivisa e riformatrice, ha vocazione architetturale nella misura in cui identifica le filiere amministrative investite dall’attuazione, una sorta di mappa delle amministrazioni che devono interpretare ed essere attraversate dal cambiamento, un po’ “soggetti attuatori”, un po’ consegnatari di un nuovo paradigma culturale.
Le risorse del Piano sono strumentali a una riforma che non sia solo il portato normativo di una facciata da rigenerare, ma incida strutturalmente nel ruolo delle PA, nel rapporto sinallagmatico con cittadini, istituzioni e imprese. Smarcandosi dall’approccio di ricucitura delle tante locali inefficienze ma provando a operare una riscrittura sistemica dei presupposti organizzativi, qualitativi e gestionali. Anche e soprattutto per predisporre la poderosa macchina organizzativa, da Roma fino ai territori, alle sfide che deriveranno dalla realizzazione del Piano, nelle sue molteplici articolazioni, dalle grandi opere pubbliche agli interventi strategici su scuole, città, servizi sociali, imprese, università, abitazioni.
Un’onda destinata ad attraversare orizzontalmente tutta la filiera pubblica. Per questo il nostro Paese non può permettersi di sbagliare, specialmente nel guado di una crisi pandemica che ha sferzato ogni versante, dalla società all’economia. La ricostruzione deve avere nella PA il suo fulcro funzionale, un elemento collante e distributivo tra ogni comparto strategico del nostro mondo produttivo e i cittadini, il giunto cardanico del sistema territoriale inteso a facilitare e determinare a caduta gli effetti moltiplicatori dello sviluppo.
Organizzazione culturale e materiale. Da qui occorre partire per mettere a terra una visione diversa, in discontinuità con il passato, non un aggravio di pratiche e procedure quanto una ridefinizione di ruoli e responsabilità. Primo non riesumare gli errori del passato, quando si preferiva agire in deroga con poteri sostitutivi piuttosto che snellire i procedimenti, o tornava comodo rinunciare alla possibilità di rinnovare le organizzazioni assumendo giovani con nuove regole: non sarebbe la prima volta. Ma farlo ora significherebbe condannare il Piano al fallimento.
Il treno del recovery ci consente anzitutto di rafforzare le organizzazioni, allineando gli enti alle componenti strategiche del Piano e finalizzando a queste linee l’analisi dei fabbisogni di nuovo personale dirigente e del comparto necessario per bilanciare l’uscita di migliaia di dipendenti che nell’ultimo decennio non sono stati sostituiti. Saranno obiettivi e modalità individualizzate a indirizzare la costruzione dei profili necessari che, a loro volta, consentiranno di tracciare percorsi concorsuali agili e veloci. È necessario reclutare forze giovani, formate e motivate e farlo in modo efficiente. Profili, dotati di competenze disciplinari e organizzative, che saranno assegnati ad approvare e modificare i cronoprogrammi su spesa, realizzazioni e risultati, di monitorare l’attuazione, di individuare ritardi e fornire soluzioni, in una costante interlocuzione con i responsabili di processo del Piano.
Complementare alla dotazione di profili conformi allo spirito del Piano è la necessità di rafforzare, in senso quantitativo e qualitativo, la formazione dei dipendenti pubblici nell’idea di una loro più diretta partecipazione alla trasformazione digitale che consentirà una innovazione tecnologica praticamente continua e costante. È auspicabile tornare ad investire in formazione quell’1% della massa salariale così come prefigurato in un disegno di riforma di vent’anni fa. La riforma PA deve mettere mano a un processo di semplificazione reale, capace di interpretare e soddisfare le esigenze di imprese e cittadini in termini di tempi di lavorazione e accessibilità degli strumenti, attraverso una ingegnerizzazione di procedimenti e servizi che devono essere digitali originalmente, non adattati alla operabilità digitale.
E, ancora, la partecipazione dei cittadini e delle associazioni, da non intendersi come platea passiva che fruisce dei servizi della PA, ma un interlocutore che consenta alla stessa PA di ottimizzare la qualità dei servizi, intercettare nuove necessità e domande, monitorare le azioni di intervento in termini di impatto e di restituzione civica delle politiche pubbliche. Questo e tanto altro deve essere la Pubblica Amministrazione. La “burocrazia difensiva” è un altro ostacolo alla efficienza che non si combatte esautorando le amministrazioni con task force, commissari, superpoteri e deroghe speciali, ma ridisegnando, all’interno dei flussi organizzativi, ruoli, strumenti e responsabilità. Vincere l’inerzia delle peggiori tradizioni amministrative significa andare oltre il respiro corto delle risposte estemporanee e mettere il primo passo verso un rinnovamento strutturale nel tempo.
È questa la PA che ha in mente il Pd. La PA è l’asset cruciale che consente l’utilizzo produttivo dei fondi europei, il cardine attivo di ogni progetto di riforma. Una PA efficiente, non più front office ma presidio comunitario di diritti e di democrazia. È questa la priorità assoluta e la sfida più grande, l’unica che può permetterci di vincere le altre. È questo il momento di costruirla.
Bisogna parlare con Brunetta