Servire i cittadini, nel mondo analogico come in quello online
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Per funzionare, la democrazia necessita di uno spazio in cui i cittadini comunicano gli uni con altri e con le istituzioni. È lo spazio dove si si sviluppano le nostre esperienze, i nostri valori e la nostra partecipazione alla vita pubblica. Nell’era pre-internet erano i media tradizionali, i partiti, le comunità ad offrire questo spazio. Oggi la nostra agorà è virtuale ed assume la sua forma attraverso piattaforme digitali come Facebook, Twitter e Instagram.

Stiamo sperimentando la costituzione di una sfera pubblica digitale in cui cittadini-utenti, attraverso le potenzialità della rete, hanno l’opportunità di far sentire la propria voce, interagire e intervenire sulla politica senza filtri o intermediazione.

Possiamo però davvero affermare che i social media ci abbiano fornito quello spazio libero e democratico tanto auspicato? Probabilmente no, considerato che le logiche alla base delle piattaforme sono tutt’altro che trasparenti e prevedibili. La diffusione dell’informazione sui social media non è casuale, ma segue il principio della ‘viralità’: algoritmi sofisticati elaborano una grande quantità di dati per decidere quali contenuti mostrare a ogni utente.

Questi meccanismi manipolatori giocano un ruolo chiave nel fenomeno della disinformazione ed hanno conseguenze enormi sui processi elettorali, soprattutto quando gruppi di matrice politica, in molti casi sovvenzionati da potenze straniere, li usano per influenzare le opinioni dei cittadini, e  le elezioni politiche. Gli esempi più eclatanti sono stati la campagna per il referendum sulla Brexit nel 2016, lo scandalo di Cambridge Analytica, e di recente, l’attacco a Capitol Hill nel gennaio scorso.

Questi episodi hanno portato Facebook e Twitter a censurare l’account dell’allora Presidente Trump, ponendoci di fronte a questioni di policy fondamentali. Le piattaforme digitali hanno agito – quando hanno agito – secondo regolamenti propri, in totale libero arbitrio, intervenendo spesso tardivamente contro una dilagante disinformazione.

L’enorme potere ed il ruolo sempre più centrale che le piattaforme digitali svolgono nelle nostre democrazie rende necessaria un’effettiva legislazione sull’uso dei dati e sulla diffusione di contenuti falsi ed incitanti all’odio.

Una regolamentazione a livello europeo è oggi più che mai urgente: come progressisti abbiamo il dovere di proteggere i valori democratici che fanno parte del nostro DNA. Non possiamo più consentire che, attraverso le mentite spoglie del diritto all’informazione, si faccia esistere, parallelamente, un diritto all’amplificazione di contenuti falsi ed infamanti senza che vi sia una chiara assunzione di responsabilità da parte degli attori digitali entro una ben definita cornice normativa.

L’Unione Europea sembra aver compreso la posta in gioco e sta lavorando assieme al Parlamento europeo, a nuove proposte legislative che regolamentino i servizi digitali, pongano chiari limiti all’egemonia delle imprese più grandi ed assicurino una maggiore protezione dei cittadini, dei diritti fondamentali e della democrazia.

La legge sui servizi digitali, presentata dalla Commissione europea a dicembre, congiuntamente al piano d’azione per la democrazia europea, punta a costruire un ambiente digitale sicuro, in grado di porre la tutela dell’utente cittadino al centro dell’azione normativa. La proposta include, tra le varie misure, la possibilità per gli utenti di poter scegliere di non ricevere contenuti personalizzati ed esaminare l’operato delle piattaforme, l’obbligo di fornire ai ricercatori l’accesso ai dati delle piattaforme, l’introduzione di un codice di buone pratiche che imponga misure per rimuovere contenuti illegali e nuove  norme in materia di trasparenza delle decisioni di moderazione dei contenuti.

Un buon punto di partenza a cui dovranno necessariamente aggiungersi successive azioni mirate. Abbiamo bisogno di un ulteriore rafforzamento delle disposizioni del regolamento generale sulla protezione dei dati per poter porre fine a ciò che viene spesso chiamato « capitalismo della sorveglianza ». Ed abbiamo altrettanto bisogno di sviluppare requisiti più stringenti che rendano le piattaforme digitali responsabili del modo in cui distribuiscono, promuovono e rimuovono i contenuti che ospitano.

Non possiamo più permettere che ogni azione continui ad essere il frutto solo di arbitrarie decisioni di società private. È esattamente qui che la politica deve intervenire, manifestando il suo ruolo propulsore nel costruire un quadro legislativo in difesa della libertà di parola ed espressione. 

È tempo di servire adeguatamente i cittadini tanto nel mondo analogico come in quello online. È tempo di sviluppare una visione democratica per un futuro sempre più digitalizzato. Una sfida da cui noi progressisti non potremo tirarci indietro.

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