Il virus cambierà il modo di costruire. Quel legame antico tra sanità e architettura
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Il bacillo della tubercolosi venne isolato da Robert Koch nel 1882, anche se la tubercolosi esisteva da molto prima. Se ne trova traccia già nell’Età del Bronzo, nei sacri Veda, con il nome di yaksma, e secondo alcuni archeologi esiste addirittura dai tempi del Neolitico.

Qualche decennio prima dell’isolamento del bacillo di Koch, quasi ottant’anni prima che si trovasse una cura valida per la tubercolosi (che arriverà verso la fine della Seconda guerra mondiale), nacque il movimento dei sanatori. Secondo le teorie pseudoscientifiche dei medici dell’Ottocento, il paziente tisico doveva prendere aria fresca, mangiare bene, essere esposto a molta luce e possibilmente passare lunghe ore in ampi terrazzi.

Gli edifici preesistenti, però, erano composti da spazi angusti, con interni carichi di baroccherie che accumulavano polvere e sporcizia.

Servivano apposite strutture, create per l’occasione, da costruire seguendo le indicazioni dei medici.

Fu così che nei primissimi anni del Novecento, nella cosmopolita Vienna di Freud, Schiele e Schoenberg, proprio grazie alla tubercolosi e al fenomeno dei sanatori, nacque l’architettura moderna. Non si tratta di una mia libera associazione di idee, ma di una teoria formulata dalla professoressa Beatriz Colomina, storica dell’architettura, archeologa dei media e famosa scrittrice e curatrice.

Stando alla ricostruzione di Colomina, infatti, i cambiamenti più radicali nella progettazione degli spazi che si manifestarono nella Vienna dei primi anni del Ventesimo secolo non erano frutti estemporanei del talento di architetti del calibro di Josef Hoffman e Adolf Loos. Se tutto a un tratto alcuni edifici, come l’importante sanatorio di Purkersdorf disegnato da Hoffman, sfoggiavano linee essenziali, grandi finestre e interni spogli è perché gli architetti rispondevano a precise direttive dei medici. Direttive che contengono in nuce i tratti salienti dell’architettura moderna: ambienti ariosi e niente chincaglieria. In quel momento storico la sanità agì sull’architettura e da allora questo legame è rimasto un sottinteso.

L’avveniristico progetto riformista, multietnico e liberale dell’Impero austro-ungarico cessò di esistere dopo la sua rovinosa sconfitta nella Prima guerra mondiale, ragion per cui tra gli anni Venti e Trenta del Novecento il movimento dei sanatori dovette trovare altre nazioni europee in cui esportare semi di architettura moderna, come dimostra il sanatorio finlandese di Paimio, realizzato da Alvar e Aino Aalto.

Lo spettro della tubercolosi è stato arginato dal progresso scientifico e grazie alla genetica si sono fatti passi da gigante nella cura e la prevenzione delle malattie. Ma come abbiamo visto in questi mesi in cui il Covid-19 ha sconvolto l’Italia, l’attuale struttura socio-sanitaria non è (ancora) pronta ad affrontare le epidemie-lampo che possono colpire la nostra nazione. I virus a diffusione aerea, la cui comparsa nelle società occidentali è stata tanto rapida quanto imprevedibile, sono una realtà che inevitabilmente causerà dei cambiamenti non solo nelle nostre piccolo abitudini quotidiane, ma anche nell’architettura e nell’urbanistica. Non sono previsioni campate in aria: le emergenze ambientali che hanno colpito realtà più inclini al progresso (come Singapore, Corea del Sud e Taiwan) hanno già innescato cambiamenti su larga scala.

Il Covid-19 non imporrà solo nuovi comportamenti sociali. La nostra «nuova normalità» non sarà segnata solo dalle mascherine e dalle distanze di sicurezza, ma da profondi quanto necessari cambiamenti strutturali.

Non basterà cambiare l’architettura degli ospedali e delle case di riposo: la Storia ci insegna che dopo eventi di tale portata vanno ripensati tutti gli spazi e gli edifici, pubblici e privati che siano. E questa trasformazione non dovrà essere sottoposta a un inutile scrutinio etico, perché il cambiamento non sarà né positivo né negativo, né buono né cattivo, ma semplicemente necessario, funzionale a un’economia che – come forse abbiamo finalmente capito – è strettamente legata alle condizioni di salute degli abitanti di un Paese.

In questa corsa contro il tempo, l’Italia dovrà affrontare e superare gli ostacoli di sempre: la diffidenza verso le riforme e una burocrazia che rende impossibile qualsiasi cambiamento. In un discorso con Paolo Gentiloni nel giugno 2019, Elena Granata, professore di Urbanistica presso il Politecnico di Milano, aveva sintetizzato perfettamente il nostro handicap culturale: «L’Italia è l’unico Paese in cui se un edificio crolla dopo un terremoto, viene ricostruito nello stesso identico luogo e con le stesse specifiche».

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2 COMMENTI

  1. Ottimo contributo nel metodo e nel merito. Il metodo deve essere quello di trasformare la disgrazia in grazia. Cogliere l’occasione per fare un passo avanti.
    Il merito dell’articolo è ugualmente indovinato. Quante volte ci siamo trovati davanti all’enorme problema dell’inadeguatezza dei nostri edifici, dal punto di vista sismico, ma anche energetico e ecologico in generale?
    Bene, anziché indirizzare le risorse che, seppur a debito, entreranno nelle casse dello Stato, verso la riproposizione di schemi produttivi e di sviluppo vecchi, è il caso di investire nell’innovazione. Su tutti i fronti. Grazie, Immagina.

  2. Ho letto con interesse il richiamo storico alla genesi architettonica dei “sanatori” nel secolo scorso e condivido le considerazioni di : della Gherardesca. Sono invece preoccupato (e contrario) della conclusione teorico-programmatica dell’articolo: «L’Italia è l’unico Paese in cui se un edificio crolla dopo un terremoto, viene ricostruito nello stesso identico luogo e con le stesse specifiche». Da non architetto, ma amatore della conservazione a scopo storico-culturale delle strutture edilizie, io disapprovo nettamente alcune distruzioni totali o parziali: San Giovanni in Conca a Milano, le mura spagnole di Milano, il Colosseo a Roma, il tentativo di distruggere le Facoltà scientifiche della Statale a Milano per ricostruirle nell’aerea ex-Expo 2015, ecc. Invece approvo lo sforzo ed i costi per ricostruire L’Aquila (come era).
    Ennio Galante

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