“Cogliamo questa prova come un’opportunità per preparare il domani di tutti, senza scartare nessuno: di tutti. Perché senza una visione d’insieme non ci sarà futuro per nessuno”.
Pochi, o forse nessuno, hanno saputo analizzare con la lucidità di Papa Francesco, che cosa è il Coronavirus, che cosa mette in discussione, che cosa esige per essere superato. Pochi ne hanno saputo cogliere tutti i significati e gli aspetti, da quello umanitario e sociale, a quello sanitario, fino a quello internazionale. Strettamente connesso con la globalizzazione (in una interconnessione tra continenti che non conosce confini, ma ha imposto chiusure di paesi e continenti), il Coronavirus ha messo in ginocchio il mondo intero in pochi mesi, senza il rumore delle armi. Bill Gates aveva avvertito: è più probabile che ad uccidere milioni di persone non siano le armi nucleari ma un nuovo virus. Era il 2015.
Annunciato da un bombardamento di drammatiche immagini per lo più provenienti da Wuhan, il Coronavirus è arrivato in Italia il 29 gennaio 2020, “in punta di piedi”, con il volto di due turisti cinesi e successivamente di un giovane italiano riportato a casa dalla Cina. Sono trascorse settimane prima che l’incendio virale divampasse a Codogno. Era il 20 e il 21 febbraio scorso.
Ci ha sorpresi per la sua velocità proprio come avviene con le fiamme portate dal vento. Si è diffuso in poche ore superando confini territoriali, imponendosi come la prima notizia del Paese e sul Paese nei media internazionali. Oggi rappresenta una prova drammatica per i cittadini, per le istituzioni, per il sistema sanitario nazionale, per l’economia, per le relazioni internazionali e persino per le relazioni sociali e personali. Non ci eravamo mai dovuti interrogare sull’eventualità di rinviare un matrimonio, non abbiamo mai dovuto fare i conti con l’impossibilità di organizzare un funerale o con l’opportunità di salire su un treno. Mai avremmo pensato di dover prendere atto che il numero delle vittime di un virus in una regione-locomotiva d’Italia, la Lombardia, fosse cinque volte più alto del numero dei civili morti durante la seconda guerra mondiale nella stessa regione. E bene ha fatto chi ha richiamato questo dato alla coscienza dei cittadini italiani perché mai si trascuri l’ impatto del virus sul presente e sul futuro. Non è una “giustificazione” ma è una verità.
Ma una riflessione e una analisi sono indispensabili.
La task force “Coronavirus” è stata istituita il 20 gennaio presso il ministero della salute. Era presieduta quotidianamente dal ministro Speranza. La prima circolare ministeriale è del 22 gennaio. Informava che il 31 dicembre 2019 la Commissione Sanitaria Municipale di Wuhan (Cina) aveva segnalato all’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) un cluster di casi di polmonite ad eziologia ignota nella città di Wuhan e che il 9 gennaio 2020, il CDC cinese aveva riferito di avere identificato un nuovo coronavirus (2019nCoV) come agente causale, pubblicando la sequenza genomica: “il nuovo coronavirus è strettamente correlato a quello della sindrome respiratoria acuta grave (SARS)”.
A seguito della dichiarazione di emergenza dell’OMS, il 30 gennaio, unica in Europa, l’Italia ha bloccato i voli da e per la Cina. Da sola, l’Italia, sempre su richiesta del ministro Speranza, ha chiesto il 22 gennaio alla Commissiaria europea Stella Kyriakides di convocare un tavolo di coordinamento delle iniziative di assumere per contrastare la potenziale emergenza sanitaria. Richiesta che la Commissaria ha accolto con ritardo. Se invece la reazione europea fosse stata tempestiva, come sarebbe cambiato l’impatto del Coronavirus sul nostro Paese, prima vittima in termini cronologici, della tempesta virale, e successivamente su tutti gli altri paesi europei raggiunti e colpiti dalla stessa tempesta? Non ho mai pensato che una forte iniziativa europea avrebbe fermato un virus che certo non bussa alla porta per entrare in casa, ma penso oggi che l’assunzione tempestiva di misure europee sia sul fronte del traffico aereo che dell’acquisizione di materiale sanitario (la tragedia delle mascherine, dei respiratori, delle tute per mettere in sicurezza i medici e gli infermieri tutelando la loro salute in primo luogo e in secondo luogo quella dei pazienti negli ospedali, nelle rsa, negli studi dei medici di base), avrebbe enormemente aiutato cittadini e istituzioni a fronteggiarlo. Per non dire di un tempestivo e precoce sostegno economico finanziario al mondo produttivo e ai cittadini europei.
È vero che l’Unione Europea non ha tra le materie delegate la sanità, ma è vero che il Trattato (Articolo 168 del TFUE) prevede iniziative volte a lottare contro grandi flagelli, la loro propagazione e prevenzione, la sorveglianza, l’allarme e la lotta contro gravi minacce per la salute a livello internazionale.
Per questo ritengo che oggi da parte dell’Unione debba arrivare un segnale così forte in termini di solidarietà, sostegno e impegno circa il presente e il futuro dei Paesi membri da essere persino risarcitorio rispetto a ciò che troppo tardi ha compreso e cominciato a fare. La nostra speranza si chiama Europa, la nostra forza si chiama Europa, ma troppo spesso proprio da parte di chi la governa ed è chiamato a darle volto e voce manca la consapevole memoria di ciò che ne ha determinato la nascita. Si potenzi dunque ogni strumento disponibile: dal MES (senza condizionalità) al Sure istituito per sostenere chi ha perso il lavoro, ai recovery bond per finanziare un Recovery Fund da 1500 miliardi con cui rilanciare crescita e lavoro.
Vi è una seconda lezione da trarre. Ha una dimensione ancora più ampia in termini di geopolitica rispetto a quella europea. Abbiamo imparato (non tutti abbastanza, forse) che la salute va affrontata e trattata come una questione di interesse collettivo, mondiale. Il Coronavirus non ha fatto e non fa distinzioni: non solo non ci sono poveri e ricchi, ma non ci sono neppure paradisi in cui rifugiarsi, perché colpisce i paesi più potenti e ricchi così come quelli più poveri e con debole voce nelle decisioni politiche mondiali. Ha bisogno di multilateralismo e non di sovranismo.
La vera differenza è determinata semmai dalla possibilità di accesso a un Servizio sanitario e dalla qualità delle prestazioni assicurate, dall’accesso a informazioni e indicazioni efficaci e tempestive. Occorre dunque rafforzare magari riformandole- per dare loro più risorse e più voce- le organizzazioni internazionali a cominciare dall’OMS. Da ogni angolo del mondo può arrivare un invisibile “nemico” della vita di ogni donna e ogni uomo, e oggi sappiamo che la salute va tutelata in una logica globale (che straordinario monito arriva dalla evidenza scientifica che il virus può essere diffuso e contagiato al mondo intero da una o poco più che una sola persona!), che l’economia può essere messa in ginocchio non dal prezzo del petrolio ma dalla messa in discussione della salute. Un bel capovolgimento di priorità. Il capitalismo conosce oggi “il prezzo di tutto e il valore di niente” ha scritto La Civiltà Cattolica citando Oscar Wilde.
Non ultimo, uno sguardo a casa nostra. Abbiamo fronteggiato la crisi grazie a medici e infermieri, grazie a un SSN che, nonostante i mancati investimenti, le riduzioni di posti letto e personale, le concessioni al privato, ha fatto miracoli. All’inizio della crisi il ministro aveva indicato in un aumento del 50% dei posti in terapia intensiva l’obiettivo minimo da raggiungere. Sembrava impossibile. Siamo invece a poco meno del 100%: da 5300 a 9284 posti. E così è stato per malattie infettive e respiratorie. Ma dovremo ripensare molte e numerose cose: la medicina del territorio (che in Germania si rivela arma vincente così come in qualche regione italiana) andrà ridisegnata e potenziata, così come gli investimenti nel comparto sanità, dal reclutamento di medici, infermieri e operatori socio sanitari, alla formazione alla ricerca e alla rete dei laboratori. Il fatto che l’Italia sia in partita sul fronte della ricerca del vaccino ci rende orgogliosi, ma sarebbe meglio se ci rendesse lungimiranti circa l’idea di paese che vogliamo. La produzione di disposizioni e macchinari per la sanità faccia i conti con il dramma che abbiamo vissuto alla ricerca di mascherine e non dimentichi. Ne’ meno urgente una riforma del ministero che lo renda più forte nell’azione e nella capacità progettuale.
Molte domande dovremo porre a noi stessi in relazione all’efficacia di un sistema sanitario organizzato per competenze concorrenti tra Stato e Regioni non per ricentralizzare, ma per eliminare dal panorama disuguaglianze non accettabili. Spesso sento parlare di regioni “più fortunate”. Alla sola fortuna, sempre benvenuta, non ci si può affidare quando è in gioco la vita dei cittadini.