We Care: i nuovi profili di comunità che vorremmo tracciare per una nuova fase
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Sembra passato molto tempo da quando tutti ci interrogavamo sulla crisi economica globale e sul nostro posizionamento rispetto alla stessa: ci siamo dipinti dentro e fuori da quel “tunnel”, ci siamo chiesti se la luce che si intravvedeva sullo sfondo fosse l’uscita o un treno che ci avrebbe investito; a volte ci siamo convinti che era meglio smettere di cercare l’uscita e dedicarci all’arredamento del tunnel per vivere al meglio una perdurante fase di incertezza.

Improvvisamente ci siamo resi conto che la percorrenza del “tunnel”, emblematicamente raffigurante un cammino difficile ed incerto, forse non rappresentava la minaccia più grande: forse quel tunnel poteva anche crollarci sulla testa. A quel punto ogni disquisizione sul posizionamento al suo interno o sulla nostra capacità di adattamento ad abitarlo è sembrata meno importante. Ci siamo svegliati una mattina e molti servizi sempre dati per scontati non esistevano più, sospesi in un limbo dai contorni sempre più incerti con l’andar del tempo (la scuola, i musei, i cinema, i ristoranti, i negozi, molti servizi alla persona, ecc.), fino al punto di sentirci privare della nostra stessa libertà per un bene superiore: la salute o, per le persone più fragili, la vita.

La risposta delle gente  a questa emergenza ha accentuato la responsabilità solidale di chi, per fortuna la stragrande maggioranza, ha adempiuto al proprio dovere civico rispettando le prescrizioni e dimostrando anche una propensione alla compassione nei confronti dei cittadini più fragili, quindi più esposti, evidenziando per converso anche il mal costume di quelli (pochi) che hanno agito comportamenti riprovevoli.

Con altrettanta evidenza si è notata la diversa capacità dei territori di rivedere profondamente l’erogazione di servizi tradizionali in risposta ad un quadro di bisogni profondamente mutato nel volgere di pochi giorni. Solo per fare alcuni esempi: la chiusura delle scuole riconvertendo il sistema alla didattica a distanza, la chiusura dei centri diurni sostituite dal supporto al domicilio per le persone non-autosufficienti, le residenze per anziani e disabili che da luoghi aperti di socializzazione si sono riorientate al distanziamento sociale ed alla prevenzione sanitaria rispetto alla possibile diffusione virale.

Quali suggerimenti cogliere da tutto ciò per mettere a valore condiviso le azioni propositive?

Nei territori che più di altri si sono distinti per la capacità di riadattare l’intera filiera integrata dei servizi educativi, sociali e sanitari si possono cogliere alcune caratteristiche peculiari:

  • La complessità è stata compresa da chi programmava e da chi gestiva i servizi, all’interno di un contesto dinamico, non gravando di problematiche chi i servizi li doveva utilizzare. In un ambiente statico, fatto di servizi rigidi e distinti, non dialoganti, è il cittadino a doversi adeguare all’offerta precostituita di prestazioni, proposta spesso a partire da criteri endogeni all’organizzazione programmatrice e/o produttrice degli stessi e non riferendosi alle necessità degli utenti, delle loro famiglie e del contesto ambientale circostante, come è avvenuto in questi territori virtuosi;
  • È stato generato un pensiero condiviso (preesistente all’emergenza sanitaria) che ha fortemente caratterizzato questi contesti dinamici grazie ad una forte sinergia inter-istituzionale a vari livelli (tra pubblico e privato, tra sociale, sanitario ed educativo, ecc.). Questa sinergia è stata la pre-condizione per ricomporre immediatamente la complessità, contrastando la naturale propensione di ciascuno all’autoreferenzialità, rimarcando comunque gli specifici e distinti ruoli e responsabilità. In altri contesti, infatti, la mancanza di un sistema strutturato di relazioni interistituzionali ha generato incomprensioni, conflitti di attribuzione che, oltre a non aver aiutato a gestire con efficacia l’emergenza, ha determinato un clima di reciproca delegittimazione nel tentativo di ciascuno di deresponsabilizzarsi rispetto a quanto accaduto, scaricando sugli altri attori le ragioni dell’insuccesso;
  • Lo strumento principe per concretizzare il pensiero in azioni è stata la co – progettazione, intesa come attività partecipata dai diversi attori (Ente locale, ASL, Ente Gestore, ecc.) che, partendo dalla definizione di obiettivi condivisi si è articolata nella scelta delle strategie da utilizzare per perseguire gli obiettivi, le singole azioni da implementare, per concludersi con il monitoraggio degli esiti alla quale è rapidamente seguita l’attività di ri-progettazione.

A ben vedere, questo è avvenuto in quei territori che, non a caso, si caratterizzano per la loro capacità diffusa di produrre fiducia e coesione sociale, dove la partecipazione dei cittadini è connaturata all’orgoglio di appartenenza alla comunità degli stessi. 

Sono territori dove la presenza del Terzo Settore è non solo più marcata, ma anche maggiormente qualificata dalla capacità di fare rete tra le singole organizzazioni e tra queste e gli atri attori del territorio. Sono quelle comunità solidali, accoglienti, educanti che vivono come un dovere condiviso dare le risposte necessarie alle persone fragili e vulnerabili, un problema di giustizia sociale che non può essere demandato unicamente agli addetti ai lavori, riguarda tutti.

Ecco il senso del “We Care” del titolo, trasponendo il motto di Don Milani su una visione comunitaria. Da queste esperienze, da questi territori possiamo tracciare i lineamenti, i profili delle comunità che vorremmo ci accompagnassero fuori dalla pandemia, fuori dalla crisi economica, fuori dalle paure, per riscoprirci ciascuno un po’ più interessato a mettere la propria spalla sotto il peso dell’altro. 

 Antonio Buzzi è Presidente del Consorzio Solco

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