Scuola, cosa si è perso e cosa possiamo ricostruire
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Da quando il Covid-19 ha iniziato ad influenzare le nostre vite, uno dei settori che ha cominciato per primo a soffrire è stato quello della scuola. Le scuole sono state le prime a chiudere e le prime ad attrezzarsi con la didattica a distanza; saranno, forse, le ultime a riaprire.

Nel comparto pubblico, se da una parte abbiamo avuto il settore sanitario in cui si è lavorato ad “aggiungere” (più posti letto, più professionalità, più attrezzature), quello scolastico ha gioco forza dovuto lavorare nel senso opposto, “togliendo” non solo la possibilità di fare lezione in classe e le relative valutazioni, ma condizionando anche una parte importante, peculiare del percorso scolastico, che non è meramente didattica ma che contribuisce alla crescita personale di ogni studente.

Sono state scelte inevitabili, i cui effetti però non saranno indolori.

Se da una parte preoccupa infatti il digital divide, il fatto che alcuni studenti, per carenza di infrastrutture o per motivi economici non riescono a seguire le lezioni online che sono state prontamente predisposte in quest’emergenza, dall’altra dovremmo chiederci se la scuola a regime ridotto riesca a svolgere appieno il suo compito che, come tutti gli studenti e gli ex studenti sanno, è qualcosa di più profondo rispetto ai paradigmi greci, alla partita doppia, o alle lezioni di matematica finanziaria.

Sono le lezioni che ci portiamo a vita, che condizionano i nostri comportamenti di adulti, il nostro impegno e le nostre scelte. Ognuno di noi, studente, è cresciuto come persona grazie all’incontro con un’insegnante, ad un’esperienza fatta a scuola, ai dibattiti in classe che si sviluppavano in quelle ore che, al suonare della campanella, ogni professore definiva sconsolato “ore perse”, ma che per noi erano state più fruttuose di tante altre.

Certo, il lockdown imposto dal Covid-19 è un’esperienza educativa di per sé per i ragazzi, eppure, se dobbiamo immaginare la scuola post-emergenza, è nostro dovere ripensarla anche come esperienza collettiva, che oltre alle nozioni, si occupi di fornire allo studente gli strumenti per osservare la realtà, per avere uno spirito critico, per essere soggetto attivo della comunità e non spettatore. È opportuno che quest’esperienza collettiva non sia data da parametri aleatori, come avere un insegnante illuminato, una scuola con dei progetti interessanti, delle occasioni casuali in cui lo studente abbia la possibilità di osservare ciò che lo circonda.

Purtroppo in tante realtà stiamo vedendo come questa situazione emergenziale stia favorendo l’abbandono scolastico e se noi ascoltiamo le parole di quei ragazzi che smettono di andare a scuola, spesso sentiamo esplicitata la loro convinzione che la scuola “non serva”. Non serve, è lontana dalla loro realtà, non la ritengono uno strumento utile a modificare in meglio la loro condizione. A maggior ragione, quindi, se vogliamo avere qualche speranza di recuperare quegli studenti perduti, dobbiamo porci il problema di far sì che tutte le scuole abbiano la possibilità di fargli cambiare idea su questo fronte.

Pensiamo come reagirebbero i ragazzi nel toccare con mano le realtà che lavorano sul territorio, come ad esempio le associazioni culturali o di volontariato che ogni giorno tra mille difficoltà provano a costruire qualcosa nella comunità in cui vivono. Come sarebbe istruttivo per loro un periodo di collaborazione obbligatorio con questi enti. Siamo consapevoli che è un’illusione pensare che basti questo per immaginare la scuola del futuro.

Tanto è da fare sul piano dell’edilizia scolastica, della digitalizzazione, dell’acquisizione di competenze che consentano agli studenti di essere al passo con una realtà che si trasforma sempre più velocemente, della valorizzazione del corpo insegnante. Però è un piccolo passo, un passo in più per guardare oltre al concreto e all’urgente, che può essere utile per far ripartire quell’ascensore sociale che si era già fermato prima dell’emergenza e che la politica ha il compito di rimettere in moto.

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