Frammenti di welfare nella società degli individui
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Oramai parecchi anni fa, Ulrich Beck descriveva la trasformazione dei nostri sistemi economico-sociali come un processo di trasferimento del rischio dalla società all’individuo. Vi era la visione di fondo secondo la quale non esiste la società ma esistono solo gli individui. La presa in carico individuale dei propri destini, soprattutto nel mondo del lavoro e, a cascata, nella vita individuale, rispondeva ad un imperativo di flessibilità. Quest’ultima era la cifra necessaria della risposta adattiva alle nuove discontinuità che emergevano nella transizione dal modello di produzione di massa fordista a un modello di produzione flessibile e innovativo, la cosiddetta specializzazione flessibile.

Già allora si ravvisava nel decentramento produttivo e nella deregolamentazione una linea di minor resistenza del capitalismo italiano, rispetto alla possibilità di trasformare le grandi imprese a grande intensità di capitale sorte durante il miracolo economico – chimica, meccanica, elettronica – in grandi imprese a maggiore intensità di tecnologia; non dimentichiamo che il primo personal computer è stato inventato nella fabbrica di vetro di Ivrea.

Il nuovo contesto produttivo era caratterizzato da nuove discontinuità dal lato della domanda, gusti dei consumatori per prodotti diversi, maggiore volatilità del ciclo economico rispetto alla crescita inarrestabile del ventennio del dopoguerra, una sempre maggiore dipendenza dalle esportazioni che aumentava la pressione competitiva, soprattutto sui costi del lavoro nei settori più tradizionali. Tutto sembrava procedere verso una flessibilizzazione del mercato. I lavoratori, o meglio gli individui, avrebbero cambiato più rapidamente lavoro e questo avrebbe determinato uno spostamento della forza lavoro verso le imprese migliori con conseguenti incrementi di produttività a livello aggregato e maggiore competitività sui mercati esteri.

Tutto questo sembrava talmente ineluttabile e necessario che venne naturale aderire da ogni parte politica, da destra come da sinistra. Quest’ultima, in particolare, celebrava la sua terza via, illudendosi che la rinascita dalle ceneri dell’ideologia socialista, morta e sepolta sotto le macerie della deindustrializzazione, sarebbe potuta avvenire sotto il nuovo marchio del socialismo di mercato, che con Bill Clinton e Tony Blair riscuoteva consensi tra gli elettori.

La Commissione Europea quasi contemporaneamente sposava il mantra della flessibilità, inaugurando l’era della flexicurity. Garantire al tempo stesso, nel mercato del lavoro, flessibilità e sicurezza. Un ossimoro. Il modello svincola la responsabilità dell’impresa per la sicurezza del lavoro e la trasferisce all’individuo; a quest’ultimo vengono tutt’al più assicurati sussidi e formazione che gli consentono di navigare a vista nei mercati del lavoro sempre più flessibili e imprevedibili, alla ricerca di migliori posti di lavoro e presa in carico individuale della propria formazione.

Il risultato di questo processo di trasferimento integrale del rischio, in cui la società e le imprese si deresponsabilizzano a favore degli individui-lavoratori – il termine (ab)usato è empowerment dei cittadini – è il frutto di politiche deliberate, o tutt’al più un atteggiamento passivo che non ha mai ostacolato questa deriva verso la linea di minore resistenza.

Ma chi semina flessibilità raccoglie fragilità. I frutti della società degli individui sono in questo momento di grave e improvvisa crisi sotto gli occhi di tutti. Nella società frammentata, o liquida se si preferisce, ogni individuo manifesta la sua insicurezza individuale, aggravata dalla crisi generata dalla pandemia Covid-19, come richiesta di un sussidio, o bonus, o trasferimento, o una garanzia dello Stato. Assistiamo a un tentativo affannoso dello Stato di sostenere gli individui che hanno perso il lavoro, o che si trovano nella condizione di non poter lavorare. Ma orientarsi nella società del welfare frammentato e individuale è una missione impossibile. Ci sono i precari, suddivisi in decine di categorie, che rivendicano i loro sussidi per la disoccupazione, Aspi e Naspi, le categorie delle domestiche, gli addetti al turismo, le partite iva a regime diverso frammentate a loro volta tra casse di previdenza private e gestioni separate, le migliaia di lavoratori a intermittenza, a tempo determinato, stagionali, e così via.

In molti casi diventa persino arduo identificare il frammento di welfare del quale si ha diritto; in altri casi si rimane impigliati in qualche terra di nessuno, in qualche interstizio marginale dove l’intersezione della pletora degli strumenti di sostegno è un insieme vuoto.  E quando l’individuo non può essere categorizzabile allora è solo, abbandonato a sé stesso, senza diritto e senza diritti.

Il risultato non può che essere una maggiore diseguaglianza, aggravata da almeno altri tre fattori: 1) tagli attesi alla formazione; 2) un ampliamento di differenze di reddito tra chi potrà lavorare con un computer e a distanza, e chi non potrà farlo; 3) un spostamento sempre più significativo da posti di lavoro garantiti verso nuovi impieghi precari e a basso reddito.

A tutto questo la risposta non può che essere l’universalità. Non la categoria ma la persona.

Nella società degli individui ognuno rivendica, legittimamente, il suo frammento di welfare, immemore, ci si consenta un finale elitario, di quando si votava entusiasticamente, a destra e sinistra, per chi prometteva tagli di tasse e meno Stato.


Andrea Filippetti e Raffaele Spallone sono ricercatori presso il CNR-Istituto di Studi sui Sistemi Regionali Federali e sulle Autonomie

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1 COMMENTO

  1. Volenti o nolenti noi siamo una specie animale ed i nostri comportamenti non prescindono dai circuiti che si sono andati accumulando in questi anni. Per la sopravvivenza di una specie è essenziale che sopravviva la prole, l’ente che la tramanda nel tempo. Le strategie riproduttive sono sempre state, quindi, fondamentali. Semplificando ci sono quelle delle specie che hanno scarso e saltuario cibo in cui è possibile nutrire e far sopravvivere poca prole; in queste ogni individuo vale moltissimo e tutta la comunità collabora per farlo crescere e sopravvivere (è un patrimonio comune!!). Sono le società del tutti per uno, uno per tutti! In queste società non può esserci competizione forte fra i maschi perché metterebbe a rischio la vita di tutti. Ci sono quelle in cui il cibo è abbondante e sempre presente in cui è possibile nutrire un elevatissimo numero di nuovi individui che valgono pochissimo poiché sono facilmente sostituibili. In queste c’è fortissima competizione fra i maschi (anche violente) per raggiungere posizioni che consentano una maggiore riproduzione. Sono le società dell’homo hominis lupus. Nei primi tipi di società gli individui sono collaborativi ed agonisti, nelle seconde sono competitivi ed antagonisti. Non sono sociologa, solo biologa, ma penso che questa chiave di lettura biologica, possa aiutare (non certo auspicando il ritorno alle condizioni difficili che hanno attraversato i nostri antenati prima dell’invenzione dell’agricoltura) ad acquisire la consapevolezza che la parcellizzazione degli individui è antitetica alla nostra stessa storia biologica e, se mai la specie non si estinguerà, porterà alla perdita dei nostri connotati di specie (socialità e capacità cognitive). Magari possa favorire la riflessione su come invertire la rotta .. la VITA ha miliardi di anni di esperienza e .. le ha provate quasi tutte!!

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