Perché oggi ci sono le condizioni per creare un nuovo welfare
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Ci troviamo a vivere come individui e come società qualcosa di troppo più grande della nostra capacità di immaginazione e di razionalizzazione. Condividere delle riflessioni, pur nella consapevolezza di avanzare pensieri incompleti e incompiuti, è quindi oggi fondamentale per costruire un’agenda di appunti sul presente e un insieme di suggestioni sul futuro.

Due mesi fa ci siamo chiusi in casa per difenderci dal virus. Un cambio di routine nelle nostre vite che, invece di nascondere tra le mura domestiche le nostre debolezze, le ha messe a nudo, in evidenza come non mai. L’azzeramento delle relazioni sociali e del rumore anestetizzante che da esse derivano ha permesso alle solitudini, alle fragilità e alle falle del nostro sistema di protezione sociale di emergere in modo lampante.

Ciò che è accaduto e sta accadendo ha quindi riportato la dimensione del rischio e del bisogno di protezione in una sfera collettiva e non individuale. Di fronte ai rischi e agli infortuni individuali è infatti sufficiente stipulare un’assicurazione privata e personale dove chi più ha più si protegge. Ma per i rischi collettivi serve l’antica nozione di mutuo soccorso, di mutua territoriale, di welfare per l’appunto non più come esigenza residuale come molti ci avevano convinto a considerarlo almeno dal 2008 in poi bensì come infrastruttura indispensabile per la cura, il benessere e la salute della comunità e quindi della democrazia.

Ecco perché ha senso dirci in queste ore che si sono create le condizioni per far nascere un nuovo welfare, perché l’evento drammatico che stiamo vivendo rimescola così tanto i fattori in campo da aver creato davvero le condizioni per ripensare alle fondamenta del nostro modello di società. Attenzione perché questo tipo di considerazione non deve essere interpretata come oggettiva e desumibile in modo neutrale dal contesto. Anzi oggi più che mai l’effetto primario della crisi sanitaria ed economica derivante dal COVID è quello di mettere in evidenza le differenze di pensiero e di cultura politica insieme alle disuguaglianze. E la scelta di fondo se combattere per costruire un sistema nuovo di relazioni sociali ed economiche, oppure rimanere fermi in attesa che il vaccino ci protegga dal virus senza rimettere in discussione l’habitat sociale in cui quel virus ha amplificato il divario tra chi sta meglio e chi sta peggio, questa scelta è la più politica tra quelle che possiamo prendere. Decidere di cambiare dunque è il presupposto per poter avanzare e cucire insieme una proposta per dirla con Polanyi che sposti l’asse dell’integrazione tra economia e società da una forma tutta improntata sullo scambio di mercato e qualche sprazzo di redistribuzione ad una forma che ancori quell’integrazione nella reciprocità e con la redistribuzione come normale modus operandi.

A ben vedere i prodromi di questa esigenza, di una rivoluzione del modello economico più spostato verso la condivisione, la reciprocità e la cooperazione, sostenibile dal punto di vista sociale e ambientale, tutto ciò era già presente nel dibattito pubblico da qualche anno. La costruzione di smart city, la sharing economy, il coworking, il cohousing, le cooperative di comunità, il green new deal tutte espressioni anglofone che da qualche tempo riempivano i nostri paper e le nostre conferenze programmatiche. La differenza tra prima e ora è tutta nel fatto che ora l’urgenza di cambiare modello è tutta davanti ai nostri occhi e non può più essere relegata al rango di filosofia buona per sognatori inguaribili. Papa Francesco in quello che rimarrà il discorso del secolo ha saputo dirlo nel modo più semplice e inequivocabile “Nessuno si salva da solo”.

Da questo monito e imperativo morale dobbiamo e possiamo muovere verso il disegno e la realizzazione di un nuovo welfare, ipotizzando al pari di un’opera pubblica almeno tre livelli di progettazione che definiscano oggi lo studio di fattibilità da sottoporre al dibattito pubblico e alla progettazione definitiva ed esecutiva insieme a tutti i pezzi della società e ai soggetti della rappresentanza. Uno dei pilastri del cambiamento che vogliamo agire è infatti anche quello metodologico che sappia integrare in una forma più evoluta democrazia rappresentativa e deliberativa dando un nuovo valore di corresponsabilità al confronto e alla discussione con tutte le parti sociali. In questo modo anche la politica potrà vivere una nuova stagione di centralità legata non più alla capacità di imposizione di un pensiero bensì alla forza che solo un processo collettivo di elaborazione e contaminazione delle idee possono produrre.


Brenda Barnini è sindaca di Empoli e responsabile Welfare nella segreteria nazionale del Partito Democratico

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1 COMMENTO

  1. Sarà determinante che il progetto complessivo e poi gli specifici interventi siano il prodotto di “un processo collettivo di elaborazione”. Perché non si tratta soltanto di considerare la “redistribuzione come modus operandi”. Se quello che vogliamo è assicurare una protezione sociale, creare una “infrastruttura per la cura, il benessere e la salute della comunità”, è necessario innescare un processo (appunto) di ‘welfare generativo’, abilitare, generare e sostenere un tessuto sociale capace di auto-proteggersi. L’infrastruttura siamo noi. Per questo dobbiamo puntare allo sviluppo delle capacità, alla valorizzazione di tutte le risorse, oltre che degli individui, delle comunità.
    Credo che siano soprattutto le amministrazioni locali che possono e debbono percorrere questa strada: è più facile a livello locale individuare insieme i bisogni e chi fa che cosa.
    Ma attraverso un lavoro di co-elaborazione, prima ancora che di co-progettazione. Non basterà convocare il terzo settore a qualche tavolo: il piano e la distribuzione di compiti, risorse e responsabilità tra pubblico e terzo settore dovrà scaturire da un’elaborazione, non da logiche economicistiche o opportunistiche. Il modello organizzativo basato sui bandi, sull’esternalizzazione finalizzata al contenimento della spesa, la messa in competizione dei soggetti del terzo settore, ha generato frammentazione anziché sapere di comunità. È l’elaborazione del piano complessivo che dovrà prima di tutto essere partecipata: proprio perché si tratta di una “scelta la più politica tra quelle che possiamo prendere”.

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