Regole e mentalità: le due strade per la piena emancipazione delle donne
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Alcuni giorni fa due editoriali su La Repubblica, pubblicati sulla stessa pagina mi hanno colpito perché sono lo specchio uno dell’altro ma che in qualche modo giungono a conclusioni differenti.

Quello di Linda Laura Sabbadini ci ricorda che sempre, “qualunque misura si decida di mettere in atto tendenzialmente non è neutra, e ha ricadute di genere”, ma questo viene spesso dimenticato e ha fatto sì che le disuguaglianze di genere siano  aumentate.

Lo si vede nel mondo del lavoro, in cui la disuguaglianza si paga in termini di minore occupazione femminile e minore retribuzione a parità di mansioni (e sappiamo bene quanto questo influisca su altre discriminazioni come la violenza contro le donne).

Lo si vede nella rappresentanza politica a tutti i livelli e in generale in qualsiasi tipo di rappresentanza ai vertici di istituzioni economiche, comitati scientifici, fondazioni bancarie, gruppi di esperti che vengono chiamati a risolvere una situazione di emergenza, come sta succedendo in questi giorni, dove per cercare di avere un minimo di riequilibrio rispetto al genere bisogna fare appelli, petizioni, domande;  “pietire” insomma che ci si ricordi che ci sono anche le donne e che qualcosa da dire lo avrebbero anche loro.

E a proposito di quali strumenti usare per cercare di colmare questa distanza, che a volte diventa imbarazzante, nel secondo editoriale Michela Marzano si chiede se basti “imporre delle quote perché l’uguaglianza diventi effettiva” concludendo che non le pare certo lo strumento più efficace.

Anch’io penso che le “quote rosa” (ma preferisco parlare di riequilibrio del genere meno rappresentato) non siano la panacea per curare il grande male che affligge da anni il nostro Paese: l’evidente disuguaglianza uomo donna in ogni ambito e contesto della società. Ma credo che siano uno strumento utile e necessario e non in contrapposizione al merito: come se poi in questa società il merito fosse stato nel tempo  un requisito imprescindibile usato costantemente per assegnare ruoli, funzioni e quindi potere.

Come si può agire su cultura e società se esiste disparità di potere? E pensiamo che il potere, oggi completamente in mano maschile, venga ceduto tranquillamente senza colpo ferire? Da quanti anni proclamiamo e dimostriamo anche con evidenze scientifiche, che una società sarebbe più giusta, più ricca, più inclusiva se le decisioni fossero prese tenendo conto anche della visione delle donne? Da quanti anni cerchiamo di cambiare questo stato di cose, di intervenire sulla mentalità, sui modelli culturali e sugli stereotipi che imbrigliano e non consentono il raggiungimento di una piena e concreta parità?

Sarebbe bello, ma è utopistico e lo dimostra la storia, se i cambiamenti avvenissero solo perché la società riconosce giusti certi principi. La schiavitù è certamente stata abolita negli Stati Uniti preparando prima e lavorando dopo a livello culturale e filosofico ma c’è stata una guerra civile! Così il voto alle donne, in tutto il mondo, è stato ottenuto sì  sulla base di riflessioni e grazie alle lotte e alle battaglie delle suffragette e infine imponendolo con una  legge.

E poi perché mai dovremmo costruire una società in cui il genere deve essere neutralizzato? Come si chiede Michela Marzano. Io rivendico la differenza, quello che vorrei neutralizzare è la discriminazione che esclude o ostacola le donne in quanto donne.

Le leggi per imporre la parità servono proprio ad accelerare un processo che solo con la spinta culturale sarebbe lentissimo. Si pensi alla legge Golfo Mosca sul riequilibrio del genere meno rappresentato nei Consigli di amministrazione. Il risultato ottenuto in pochi anni avrebbe avuto bisogno di decenni.

Va in questa direzione il disegno di legge a prima firma della senatrice Pinotti che chiede di modificare la legge 23 agosto 1988, n. 400, sull’ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri inserendo che sia assicurato il rispetto del principio di equilibrio di genere, almeno nella misura dei due quinti, da computare sul numero complessivo delle designazioni o nomine effettuate in corso d’anno nella scelta dei consulenti di nomina governativa e in tutte le strutture della Presidenza del Consiglio.

Sarebbe però importante che per legge fossero anche regolate le nomine parlamentari e non solo quelle governative e che si imponesse un obbligo anche quando le nomine sono monocratiche, magari con un’alternanza delle designazioni.

Fondamentale è anche la prescrizione sanzionatoria: quella prevista dal ddl Pinotti sembra un po’ debole; meglio sarebbe prevedere, come per la Golfo Mosca, la decadenza, o meglio ancora la nullità  ab origine, dando la legittimazione all’azione a qualsiasi soggetto interessato facendo  sì che tutti possano vigilare sul rispetto della norma.

Quello che però mi preme sottolineare è che noi donne dovremmo rivendicare con forza che il processo di selezione, pur in presenza di “quote”, sia più chiaro e trasparente. Che le scelte, che oggi spesso vengono fatte più per appartenenze diverse dal genere, vengano compiute in base alle competenze, all’esperienza e all’impegno e che i criteri di scelta siano precisi e cristallini e inseriti in evidenze pubbliche.

Le strade quindi da percorrere sono due e corrono parallele: quella che impone degli obblighi e quella che agisce cercando di cambiare una mentalità e dei modelli culturali retaggio di anni di patriarcato e maschilismo nel nostro Paese.

In questa direzione è importante anche lavorare perché le donne, sin da giovani, acquisiscano autostima e consapevolezza della loro bravura come dimostrano i risultati che le vedono primeggiare a scuola avendo migliori voti rispetto ai loro compagni maschi.  

E, da ultimo, ma non per ultimo, chiedere alle donne che hanno raggiunto i vertici e qualche leva del potere di non dimenticarsi che se sono arrivate lì è perché, nei secoli, ci sono state donne che hanno lottato perché ciò avvenisse.


Laura Onofri fa parte delle Democratiche di Torino

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