Ricordare oggi Giovanni Falcone
R

Che dire in questo ventottesimo anniversario della strage di Capaci? Che dire a ridosso dell’avvilente spettacolo inferto agli italiani, già provati dalla crisi pandemica, costretti ad assistere attoniti a scontri e polemiche feroci su una giustizia ridotta a zuffa televisiva tra deliri di onnipotenza, logiche del sospetto, sproloqui giustizialisti e minacce di crisi di governo?

Dopo tutto questo, piuttosto che stendere un velo pietoso, forse il modo migliore per onorare la memoria dei martiri di Capaci – e per trarre qualche insegnamento in vista del difficile futuro che ci attende – é ricordare il rapporto tra magistratura e politica come lo concepiva Giovanni Falcone: un rapporto di leale collaborazione, nel rispetto dei ruoli, tra istituzioni forti e indipendenti, forti perché indipendenti.

Qualunque sistema politico democratico si regge sulla fiducia dei cittadini verso le istituzioni, ma questo rapporto di fiducia va costruito e coltivato con la credibilità e con la trasparenza. Per questa ragione – egli sosteneva – nella lotta alle mafie non possiamo pretendere il coraggio da inermi cittadini, ma deve essere lo Stato a mettere in campo, in tutte le sue articolazioni, le forze migliori e così meritare la loro fiducia.

Falcone dimostrò con le sue scelte – pagate, prima, con l’isolamento all’interno dell’Anm e del Csm, e poi con la morte – che non basta una magistratura indipendente ed efficiente per sconfiggere i nemici dello Stato di diritto, ma è necessaria anche una politica altrettanto indipendente e autorevole che, assieme alla magistratura, sia in grado di concepire e attuare una nuova strategia politica contro le mafie, una strategia offensiva, non più soltanto difensiva o contenitiva. In questo era tutto il senso della sua scelta di lasciare la Procura di Palermo e andare al Ministero per promuovere quella politica, quella strategia. Falcone è morto perché le menti raffinatissime di Cosa nostra avevano intuito le potenzialità distruttive di quella nascente alleanza istituzionale per gli equilibri del rapporto Stato-mafia e dunque per la vita stessa dell’organizzazione criminale.

Nella riunione dei capi di Cosa nostra nel dicembre 1991, che segnò la decisione di dare avvio alla stagione stragista, Salvatore Riina disse che Falcone “stava facendo più danni a Roma che a Palermo”. Ricordo solo che, nell’ottobre precedente, il Governo aveva istituito con decreti legge, per impulso di Falcone, la Direzione nazionale antimafia e la Direzione investigativa antimafia.

Grazie al sacrificio di Falcone e di Borsellino, molti progressi sono stati compiuti nell’azione di contrasto alle mafie e molti risultati sono stati conseguiti sul piano della prevenzione e della repressione personale e patrimoniale. Alcuni aspetti del loro insegnamento hanno straordinaria rilevanza ed attualità a fronte delle nuove forme di manifestazione della criminalità organizzata e dell’accresciuto rischio di infiltrazioni nell’economia legale in connessione con l’attuale crisi economica e sociale e con il prevedibile sfruttamento, da parte delle mafie, delle opportunità di riciclaggio e di assalto ai finanziamenti pubblici in arrivo anche dall’Unione europea. Le crescenti disuguaglianze sociali, già in atto prima di questa crisi economica e sociale senza precedenti, provocano sentimenti di paura e di precarietà in milioni di persone e favoriscono le mafie nel condurre affari con i ricchi senza scrupoli e nel reclutare i disperati nelle fila della manovalanza criminale, sfruttando le permanenti le asimmetrie regolative e le disarmonie ordinamentali tra i vari Paesi, anche all’interno dell’Unione europea.

Questa constatazione ci porta a chiederci se la mancata o incompleta attuazione dei diritti costituzionali, che pongono la persona umana e la sua dignità al centro dell’ordinamento della Repubblica, non costituisca forse il più grande regalo che lo Stato abbia fatto, e continui a fare, alle mafie di ogni tipo, le quali ne approfittano per affermare il loro potere sistemico.

In questo contesto, una giustizia efficiente e credibile, capace di assicurare una efficace tutela dei diritti dei cittadini e condizioni di sicurezza per le imprese, è indispensabile per il rilancio economico. Tanto per cominciare, sarà necessaria una strategia, quella strategia che invocava Falcone, da adottare attraverso l’elaborazione di un Piano per la durata ragionevole dei processi, che impegni tutti i soggetti che hanno responsabilità nel sistema giudiziario – Ministero, Csm e magistrati – e che si dovrebbe concretizzare sia nel diminuire l’entità della domanda di procedimenti, con adeguati strumenti deflattivi, sia nell’aumentare la capacità di risposta degli uffici giudiziari con adeguati strumenti normativi e organizzativi.

Occorrerà anzitutto cogliere la lezione del caso Palamara-CSM per esigere rigore e trasparenza nell’autogoverno della magistratura, nella selezione degli aspiranti a incarichi direttivi e nella valutazione della loro attitudine direttiva, come pure nella nomina dei “fuori ruolo” ministeriali, sottraendole al mercimonio correntizio, all’intrallazzo politico e agli appetiti carrieristici degli interessati. Alla tentazione di una giustizia come esercizio del potere più che come servizio per i cittadini. E’ però difficile credere che, in un contesto in cui sembra venir meno la cultura della giurisdizione come cultura del limite e delle responsabilità individuali, sarà sufficiente la pur auspicabile riforma del sistema elettorale per il Csm.

Quanto al processo penale, il dibattito in corso sulla riforma della prescrizione dei reati, voluta dal primo Governo Conte, è il plastico esempio di un antico vizio che attanaglia la politica italiana: girare intorno ai problemi senza andare alla loro sostanza e, quindi, senza risolverli. Ancora una volta si sta perdendo in chiacchiere l’occasione per riformare il processo penale e per dare finalmente attuazione al precetto costituzionale – articolo 111 – che fissa i principi del giusto processo (penale e civile) e impone al legislatore l’obbligo di assicurarne la ragionevole durata.
Per impedire i tempi morti e assicurare la tempestiva definizione dei processi, urgono interventi di sistema sul processo e sulla organizzazione giudiziaria.

Il triste spettacolo cui assistiamo è quello di un sistema giudiziario che si regge sull’inefficienza, di cui la falcidia prescrizionale è la spia più immediata. L’ultima autorevole ammissione in tal senso è venuta dal Presidente della Corte di Cassazione, Giovanni Mammone, che alla cerimonia inaugurale dell’Anno Giudiziario ha lanciato il seguente allarme: con la riforma Bonafede – che abolisce la prescrizione dopo la sentenza di primo grado – arriveranno in Cassazione 25mila processi in più ogni anno, con un incremento del 50%. E i giudizi penali andranno in tilt. Come dire: il vecchio regime della prescrizione assicurava la sopravvivenza operativa della Cassazione e una “ragionevole durata” fondata non già sull’efficienza, ma sulla buona volontà dei magistrati ed anche su una ampia percentuale di denegata giustizia. Da qui la necessità e l’urgenza di un intervento organico sul processo penale e sugli apparati organizzativi, un intervento di cui posso qui indicare soltanto alcuni punti: prevedere un filtro di ammissibilità dell’appello per evitare le impugnazioni meramente dilatorie; riservare il grado si appello alle sentenze che definiscono il processo in primo grado con riti alternativi, che costituirebbe un ulteriore incentivo verso questi ultimi; prevedere il giudice monocratico in appello per i giudizi definiti dal monocratico in primo grado.

E poi ancora: riforma e semplificazione del sistema delle notificazioni degli atti al passo con gli sviluppi tecnologici; depenalizzazione dei reati minori (abbiamo un catalogo di 35mila reati); non rinnovazione delle prove assunte in dibattimento in caso di mutamento della composizione collegiale prima della sentenza (art. 525 cpp); snellimento delle tecniche redazionali delle sentenze. Sarà poi indispensabile riorganizzare gli uffici giudiziari con adeguate immissioni di personale e di risorse finanziarie, anche in considerazione della necessità di implementare i servizi informatici e, per quanto possibile, la trattazione dei processi “a distanza”.

Strettamente connessa alla riforma del processo penale è la riforma dell’ordinamento penitenziario secondo i principi affermati nel 2018 dagli Stati Generali dell’esecuzione penale: il carcere come extrema ratio da riservare alle manifestazioni delittuose più gravi, la valorizzazione della magistratura di sorveglianza in rapporto alla funzione rieducativa della pena, la giustizia riparativa, le misure alternative alla detenzione come componenti del percorso rieducativo. Ma anche in questo caso occorreranno investimenti nella formazione del personale e nell’edilizia carceraria.

Il sovraffollamento carcerario è per il sistema penitenziario ciò che è la prescrizione per il processo penale, sono entrambi, non la causa, ma i sintomi di due sistemi le cui perduranti disfunzionalità provocheranno crescenti danni ai singoli e alla collettività e ulteriore sfiducia nelle istituzioni.

Di fronte allo scenario di crisi prodotto dalla pandemia, dalle disuguaglianze sociali e dall’aggressione mafiosa dobbiamo renderci conto che la lotta per la legalità costituzionale e per una giustizia uguale per tutti è vitale per la difesa dello Stato di diritto e, in definitiva, per la sopravvivenza della nostra stessa democrazia, in un mondo libero dalla paura e dall’odio perché più giusto, più solidale e più rispettoso della dignità umana.

Più letti

spot_img

Articoli correlati

1 COMMENTO

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento
Per favore, inserisci il tuo nome

Magazine