Rsa, superare un modello e aggredire la non autosufficienza
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Le Residenze sanitarie assistite (Rsa), per come le abbiamo avute fino ad oggi, vanno superate. È innegabile il sentimento di rabbia e impotenza che ognuno di noi ha provato nei giorni del lockdown alla lettura dei giornali: un numero enorme di persone contagiate e poi decedute, tra quelle ospiti nelle Rsa, sono entrate nelle nostre case con le loro storie, con i loro familiari, con la loro fragilità. Le stesse strutture sono state percepite dai più come luoghi chiusi, più vicine all’idea di luogo dove andare a morire piuttosto che di un posto dove essere assistiti nella fase più complessa della propria vita: quella che comporta un impegno di cura sociosanitario di altissimo livello. L’opinione pubblica ha sempre un peso, che lo si creda o meno. Il pericolo, ora che siamo nella “fase 2”, è duplice: da una parte le famiglie e i cittadini non percepiscono più le Rsa come quei luoghi residenziali e sanitari di assistenza alla persona, dall’altra i Sistemi Sanitari Regionali sembrano non aver ancora avviato una riflessione profonda su un modello di assistenza che va necessariamente cambiato. In questo senso potrebbe avere anche un nuovo ruolo il Terzo settore che, complice la criticità evidente, ha un campo su cui immaginare un potenziale sviluppo.

La sfida

L’emergenza Covid, non possiamo negarcelo, ha fatto emergere delle criticità: per tanti di noi è stata occasione per avviare ragionamenti sui modelli assistenziali, modelli che potevano essere innovativi vent’anni fa. Meno oggi, nel momento in cui l’invecchiamento della popolazione e la non autosufficienza devono imporre alla Politica e a noi tutti di rivedere i percorsi assistenziali, i servizi alla persona, le tipologie di strutture.

In questa sfida c’è anche un tema di rispetto della persona e della comunità. Questo vale anche per gli ex art.26. Grandi strutture, mancanza totale di modelli comunitari e familiari, spazi valutati solo in termini di metri quadrati e servizi igienici a norma, economie di scala sul cibo e l’assistenza non hanno consentito – in piena emergenza – di salvare quanti in quelle strutture erano lì per curarsi o essere assistiti. Certamente non lì per morire. Il tema dei controlli va benissimo, ma va garantito sempre. A prescindere. Come è andato benissimo lo stop alle visite dei parenti e degli esterni.

Quello che però noi dobbiamo chiederci come Partito Democratico è se questi modelli esistenti sono ancora ammissibili per il futuro e soprattutto se sono modelli “umani”. Dobbiamo chiederci se questi modelli garantiscono la piena dignità delle persone più fragili tra noi. Se non sia il caso di prevedere, anche in questo settore, un investimento sulla domiciliarità e sul co-housing, che coinvolga in un’ottica socio-sanitaria (e non esclusivamente sanitaria) la famiglia, gli specialisti, il Terzo settore, le Asl e i Comuni. Se non sia il caso di fermare le nuove autorizzazioni, ridimensionando fortemente le grandi strutture. Se non sia il caso di rinfrescare le professioni che operano all’interno di queste strutture, tenendo conto dell’insorgenza – ormai diffusa – di patologie cronico-degenerative e legate a demenza senile, ma anche del diffondersi della telemedicina e del sostegno da remoto.

Tre modelli nuovi

Se abbiamo coraggio, è tempo di modelli nuovi, tenendo conto che ci saranno nei prossimi mesi anche centinaia di famiglie che non saranno più in grado di sostenere i costi di compartecipazione per queste strutture.

Dice bene Sergio Pasquinelli, direttore di ricerca Irs (Istituto ricerca sociale) in un articolo pubblicato il 1 maggio 2020 su Vita.it: a) le Rsa possono essere presìdi aperti sul territorio alla comunità, ai servizi sociali, alle famiglie e al Terzo settore. L’errore di questi anni è stato immaginare un rapporto quasi esclusivo tra Rsa ed ospedale, e non aver invece investito sul modello territoriale e domiciliare; b) le Rsa possono poi essere strutture più piccole, più “amiche”. Le Rsa devono – così trasformate – essere l’ultima risposta e tutti noi dobbiamo immaginare strutture intermedie per tutto quel 20% di “ricoveri impropri” che lì finiscono: modelli nuovi di housing sociosanitario sono e possono essere la risposta intermedia. Sono la risposta nuova e sono il luogo dove il Terzo settore può recuperare un nuovo ruolo; c) le Rsa devono fare un investimento sul personale e sulla tecnologia.

La riflessione

Dovremmo interrogarci su questo e farlo in fretta. Un nuovo modello di Rsa è possibile ed è indispensabile che sia collocato all’interno della rete dei servizi territoriali: solo così le strutture possono essere di supporto anche alle cure domiciliari e a nuovi servizi di supporto per le famiglie. Le Rsa non possono essere più solo luoghi di ricovero, spesso lontani chilometri dal domicilio dei parenti, ma anzi trasformarsi in centrali operative di servizi residenziali, domiciliari e familiari in un contesto arricchito dall’ausilio che il Terzo settore può dare e dallo sviluppo – ormai esploso – di telemedicina e teleassistenza.

Sullo sfondo di questa trasformazione, crediamo sia arrivato anche il tempo che il nostro Paese si doti di una Legge sulla non autosufficienza. Siamo uno dei pochi Paesi in Europa a non averla, a fronte di un invecchiamento della popolazione tra i più alti del mondo: serve una legge – magari sul modello tedesco – che consenta a chiunque di noi di sostenere economicamente i costi di cura e di assistenza nell’ultima fase della vita o anche nella fase della non autosufficienza da grave disabilità. Una fase che spesso è caratterizzata da patologie cronico degenerative, da assistenza h24, da cronicità. Portiamo il dibattito in Parlamento e consentiamo alle famiglie di sostenere i costi della non autosufficienza, mettendole anche nella condizione di scegliere tra servizi diversi, più umani, aperti e legati al territorio, impreziositi dal Terzo settore, con una nuova generazione di competenze sanitarie e sociali, e con i nuovi strumenti digitali a disposizione.

Usciamo dal lockdown con una speranza e qualche obiettivo: rivedere il modello delle Rsa e aprire un dibattito parlamentare sulla non autosufficienza.


Erica Battaglia è membro della Direzione regionale del Pd Lazio

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