Camici e lenzuola, il grande insegnamento della pandemia
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La pandemia è stata uno stress test per l’organizzazione sanitaria. Qualsiasi evento imprevisto di una simile portata lo sarebbe stato: lo sono stati in un passato non troppo lontano, sia pure limitatamente ad aree territoriali circoscritte, le catastrofi naturali o quelle derivanti da incidenti industriali. Ma in questo caso le dimensioni del rischio, oltre che del danno, hanno avuto una importanza che non trova paragoni possibili: almeno da quando abbiamo un servizio sanitario universalistico e generalista.

Tutta l’organizzazione sanitaria è stata interessata dalla pandemia: non solo le terapie intensive ed i reparti specialistici, ma anche i servizi della prevenzione, della continuità delle cure, della riabilitazione, delle altre specialità oltre quelle più direttamente chiamate a fronteggiare i casi più gravi.

Eppure: di cosa si è parlato? Esclusivamente di terapie intensive. Forse perché il loro tasso di utilizzo, superiore alle capacità programmate, è stato l’indicatore della gravità della situazione, ma anche di una disfunzionalità di sistema più generale e meno immediata da cogliere.

Per ridurre questa disfunzionalità, dobbiamo dotarci esclusivamente di più posti letto ospedalieri e terapie intensive? E’ su questi servizi che oggi dobbiamo investire, anche con le risorse del MES? La risposta non può essere né drastica né univoca.

Sicuramente è un dato di fatto che, in quasi 30 anni, il numero di posti letto ospedalieri sia nettamente diminuito: dai 311mila posti letto registrati nel 1998 siamo arrivati a 191mila nel 2017. Un dato enorme. Colpisce ben più della fantasia, modifica lo scenario ad esempio di quei paesi della provincia italiana in cui l’ospedale non c’è più.

Ma le cifre non dicono, ad esempio, quante “lungodegenze” siano state riconvertite in RSA, termine che abbiamo imparato a conoscere anche se non ci occupiamo di sanità; o quanti nuovi servizi residenziali complementari agli ospedali siano stati creati. Per cui se per un attimo lasciamo stare il conto dei posti letto, rispetto al numero complessivo di medici in Italia non stiamo poi così male: infatti in Europa siamo al secondo posto nella graduatoria del numero di medici per abitante. E le cure le dispongono i medici, non i letti. Quindi se non bene: benino.

In questa graduatoria europea scendiamo però al decimo posto se consideriamo i soli medici di famiglia: il primo punto di riferimento della sanità pubblica per i cittadini.

Una delle conseguenze della scarsità di medicina generale è che si genera una pressione impropria sugli ospedali: se è difficile parlare con il tuo medico, e ti senti male, vai al Pronto Soccorso. Tanto che i pronto soccorso sono perennemente sovraffollati, generando tempi di attesa dopo il triage che si aggirano facilmente attorno alle 12 ore.

Sono tutte situazioni in cui l’ospedale è il servizio giusto cui rivolgersi? Sembra di no. Infatti, solo ad un terzo delle persone che si rivolgono al Pronto Soccorso vengono attribuiti i codici Rosso o Giallo (i colori attribuiti convenzionalmente ai pazienti che hanno reali condizioni di urgenza, tali da giustificare l’accesso al Pronto Soccorso)
Questo significa che 2/3 dei pazienti che si rivolgono “d’urgenza” all’ospedale potrebbero ricevere risposte più adeguate e forse più rapide se si rivolgessero ad altre strutture sanitarie, a partire proprio dai medici di medicina generale (il medico di base).

Torniamo quindi al punto: abbiamo abbastanza medici di base in Italia? Quelli che dovrebbero lavorare prioritariamente da filtro e prima risposta, da agenti di prevenzione e orientamento

Non pare. Innanzitutto in Italia abbiamo in media meno di un medico di base ogni 1000 abitanti (i posti letto ospedalieri sono circa 3,6 ogni mille abitanti). Inoltre se facciamo due conti, a partire dal dato semplice per cui ogni medico deve lavorare un ora a settimana ogni 100 pazienti in carico, risulta che ad ognuno di noi adulti spetta mezz’ora del tempo di lavoro del proprio medico all’anno. Mezz’ora all’anno del tuo medico. Per fortuna i medici di base sono tanto generosi da lavorare ben di più di quanto previsto dai loro contratti: ma, diciamola così: si tratta sempre di un millesimo di medico di base a testa.

Ora, se questa dotazione di medicina generale risulta palesemente insufficiente in tempi ordinari, pensate cosa può significare rispetto all’aumento di domande di intervento nel corso di una epidemia quando, come nei mesi appena trascorsi, ad ogni colpo di tosse o starnuto si veniva invitati a consultare il proprio medico.

Poi, sicuramente, potremo parlare di modalità più mature e funzionali dell’organizzazione della medicina generale; dell’utilità degli studi medici associati; di quanto può essere vantaggioso istituire il servizio infermieristico territoriale o diffondere modelli come quelli delle Case della Salute sperimentati nel Lazio ed in altre regioni del Centro Italia.

Ma senza un cospicuo investimento sulla medicina di base e su quella del territorio, rischieremo di avere nei prossimi anni una organizzazione dei servizi per la salute ancora meno elastica e flessibile rispetto ad un bisogno sanitario che non solo è in continua evoluzione, ma che è anche suscettibile di incidenti come quello della pandemia.

Il riparto dei finanziamenti che arriveranno dal MES per qualificare l’offerta sanitaria, se vuole guardare al futuro, dovrà andare necessariamente a rafforzare la medicina del territorio.


Cristiano Di Francia, PD Donna Olimpia

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