L’università e la ricerca ai tempi degli Stati Generali
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Ammetto che il “documento Colao” affronta molte delle criticità importanti del nostro sistema della università e della ricerca.

Già l’incipit contiene affermazioni ampiamente condivisibili: “Per quanto riguarda l’università, la criticità di fondo è legata in primo luogo al basso tasso di laureati, anche dovuto alla debolezza di un canale terziario professionalizzante. Inoltre, la debolezza del sistema della ricerca pubblica appare dovuta non solo a un problema di risorse inadeguate ma anche all’inefficacia della sua governance. La mancanza di investimenti certi e regolari rappresenta un’ovvia fragilità, aggravata da uno scarso livello di compartecipazione pubblico-privato”.
 
Così come reputo importante l’esplicito riferimento alla istruzione terziaria professionalizzante (ITS) per “il superamento del mismatch fra l’offerta di competenze prodotte dal sistema formativo e la domanda del tessuto socio-economico.”
 
Ed è significativa la sollecitazione a preoccuparsi  dell’ “adeguamento del dottorato di ricerca ai migliori standard internazionali, con particolare attenzione al miglioramento del percorso formativo, non esclusivamente mirato alla carriera accademica ma anche all’inserimento di competenze elevate nel mondo delle imprese e delle professioni.”
 
Il documento contiene molto altro, ma, per ragioni di spazio, mi limiterò a qualche considerazione sui tre punti: pochi laureati, ITS e dottorato. Sarebbe comunque gran cosa se il documento Colao servisse ad avviare interventi mirati di riforma ma dubito che ciò possa accadere: le criticità elencate nel documento hanno radici profonde nel sistema culturale del paese.
 
Vediamo il tema dei pochi laureati. L’Università italiana, anche se i costi non raggiungono i livelli di altri paesi, non è gratis e i sussidi non sono comunque sufficienti per garantire veramente che tutti i bisognosi e meritevoli possano accedere ai percorsi di studio. Non credo tuttavia che il costo dell’università sia il principale deterrente. Si investe se si crede che ne valga la pena. Da più parti è stato fatto notare che l’ “ascensore sociale” della formazione non funziona più. Il titolo di studio non è più garanzia di maggiore reddito e/o di migliore posizione lavorativa. Non è così in tutte le aree, tuttavia. Le statistiche indicano carenza di laureati ma questa carenza è molto più marcata nelle scienze, nella medicina e nelle tecnologie.
 
Eppure, ancora tanti (troppi) decisori storcono il naso quando si parla di un maggiore collegamento tra formazione universitaria e mercato del lavoro laddove, invece, sarebbe necessario spingere a più strette collaborazioni tra Università e sistema produttivo. Collaborazioni che potrebbero servire a fare crescere le aziende che daranno lavoro ai nostri giovani, laureati e non, o a farne nascere di nuove meglio equipaggiate per affrontare le grandi sfide climatiche, energetiche, alimentari del nostro tempo.

Non solo la politica. Ancora oggi una parte del mondo accademico sembra essere allergica a termini come “competenze”, “partecipazione pubblico-privato” e “professionalizzazione”. Quello di reputare negativo il collegamento tra cultura e lavoro è un paradosso tutto italiano, ed è un paradosso che viviamo da molti decenni. Molti “maitre à penser” ancora guardano con “aristocratico distacco” al rapporto tra formazione dei giovani e mondo del lavoro, sottilmente distinguendo, con il pretesto delle “due culture”, tra “sapéri” (rigorosamente al plurale) e scienze orientate e applicate.

Porsi il problema del collegamento tra indirizzo di studio e prospettive occupazionali servirebbe sicuramente a ridurre le perdite intellettuali ed economiche associate ad abbandoni e false partenze. Il problema della scarsa attrattività degli studi universitari non è tutto lì, ovviamente. Tuttavia scoprire a fine percorso che, in molti settori, il lavoro “per quello che si è studiato” c’è, ma non per tutti, certamente genera frustrazioni e disillusioni. 

Questo atteggiamento complessivo ha ricadute anche sul tema del rafforzamento dell’istruzione terziaria professionalizzante. Anche qui, a mio avviso, occorre superare falsi miti e barriere comunicative. Finché nel vissuto quotidiano per “diventare dottore” sarà sufficiente una laurea triennale, ben difficilmente un percorso di ITS potrà essere ritenuto competitivo. E’ sciocco, è sbagliato, ma la percezione del valore sociale della laurea è un aspetto fondamentale della comunicazione. Si riproduce a livello di formazione terziaria il gap di immagine e di percezione sociale che tuttora separa istituti e licei. Personalmente ritengo che qualunque intervento sui percorsi formativi che non parta da una corretta definizione dei valori percepiti, sia dalle famiglie sia dai datori di lavoro, dei titoli di studio è destinato a impantanarsi.
 
Sulla stessa linea di ragionamento si pone il proposito di modificare il dottorato. A quasi quarant’anni dalla sua implementazione, l’accademia italiana – e con essa il sistema produttivo – ancora si si interroga sul perché e sul percome del dottorato di ricerca. Contrariamente agli altri paesi europei, che sul PhD hanno costruito buona parte delle fortune e della capacità di attrazione internazionale, in Italia il PhD, come lo stesso “documento Colao” mette in evidenza, è sempre stato “interpretato”, forse distorcendo la volontà del legislatore, come un modo per preselezionare ricercatori da “tenere” in accademia.
 
E’ un fatto che si entra nel dottorato mediante concorso per titoli ed esami come se si dovesse partecipare a un concorso per un “contratto a tempo determinato” anche se le funzioni da svolgere sono più prossime a quelle dello studente in formazione che a quelle del ricercatore indipendente. Lo stesso “valore sociale” del dottorato di ricerca è poco chiaro riproducendo l’equivoco delle lauree.
 
Se si è “dottori” con tre anni di studio dopo le scuole superiori perché si dovrebbe ambire a diventare PhD? E a chi serve una figura iperspecializzata, ma presumibilmente in grado di impostare, verificare e portare a fondo un progetto di ricerca?
 
Bene il ragionamento sulla mobilità che si collega direttamente all’idea di costruire/ favorire un mercato del lavoro intellettuale. Per un giovane ricercatore è molto difficile spostarsi dalla sede nella quale ci si è formati. L’Italia è il paese delle carriere verticali (come quella di chi scrive): dalla laurea alla (prossima) pensione nella stessa Università. Questa verticalità è segno di mancanza di competizione tra atenei. Nell’attuale funzionamento tutto milita a favore delle promozioni rispetto alle assunzioni non foss’altro perché assumere può voler dire reperire risorse ex-novo sul bilancio degli atenei mentre promuovere vuol dire solo coprire dei differenziali. Purtroppo fino a quando si distinguerà tra “punti organico”, cioè posizioni virtuali nell’organico di ateneo, e budget sarà molto difficile che gli atenei, nelle condizioni di contenimento della spesa in cui si trovano continuamente ad operare, possano favorire il reclutamento esterno. Solo forti meccanismi incentivanti sia normativi, sia finanziari, sia di valutazione degli atenei (cioè con ricadute sul fondo di finanziamento ordinario) accompagnati da supporto alla mobilità (alloggi temporanei, finanziamenti di avviamento alla ricerca nella nuova sede) potranno scardinare uno dei più potenti blocchi allo sviluppo del nostro sistema universitario.
 
Dal momento che parliamo di riforme “impossibili” poniamoci anche – di nuovo – il problema dell’accesso alle carriere e quindi della “giungla del precariato”. Bene sostituire gli assegni di ricerca con forme contrattuali più coerenti con la figura del ricercatore a contratto a tempo determinato, ma solo se, contestualmente si risolve l’ambiguità del RTD “di tipo A” che può essere in una sorta di “pre-tenure track” privilegiata se reclutato su “punti organico” oppure essere meno garantito se reclutato su finanziamenti esclusivamente privati. (Già una figura professione che entra nella legislazione universitaria come “di tipo A o tipo B” la dice lunga sulla confusione mentale dell’estensore della norma).

Non condivido invece l’idea di spingere alla specializzazione delle università minori e anche tra diversi dipartimenti all’interno dei megaatenei. La qualità diffusa è un merito del nostro sistema. Siamo veramente sicuri che creare “poli di eccellenza” serva veramente, e a cosa poi? Per guadagnare qualche posizione nelle fumose (fumose non famose – non è un errore di battitura) graduatorie internazionali. Diverso è invece ragionare su “economie di scala e di gamma” nelle grandi infrastrutture di ricerca e centri di ricerca interdipartimentali e inter-universitari che consentano di concentrare le risorse per acquisire grandi strumentazioni che servano a più settori.
 
Ci sarebbe ancora tanto da dire. Il documento Colao, in fondo, è un cahier de doléances che tocca moltissime criticità del nostro sistema. Sappiamo che non basta elencare i problemi per risolverli.
 
Il fatto stesso che non ci sia (ancora) stata una vera “levata di scudi” da parte della accademia più conservatrice mi fa pensare che nessuno veramente si aspetti che il “documento Colao” abbia conseguenze pratiche, cioè che conduca ad “atti conseguenti” in Parlamento.


Dario Braga è Direttore Istituto studi avanzati AlmaMater Studiorum Bologna

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