L’Italia prenda posizione sulla Thyssen, lo dobbiamo a chi non c’è più. Parla Antonio Boccuzzi
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La vicenda, purtroppo, è nota. Il 6 dicembre del 2007, otto operai rimangono coinvolti nell’incendio scoppiato nello stabilimento Thyssenkrupp di Torino. Sette di loro moriranno nel rogo. Avevano tra i 26 e i 54 anni.

Tredici anni e cinque processi dopo, sulla sentenza che aveva condannato a cinque anni di carcere in Germania i due manager tedeschi dell’azienda è arrivata la doccia fredda della decisione della procura di Essen, che ha concesso loro la semi libertà, ancora prima che la libertà fosse loro tolta.

Una decisione che ha suscitato rabbia e delusione tra i familiari delle vittime e che per Antonio Boccuzzi, l’unico sopravvissuto – che abbiamo sentito per Immagina, e nella cui voce si avverte intatta l’emozione e lo sconcerto per quanto avvenuto quella sera maledetta -, suona come una beffa.

Boccuzzi, giro a lei la domanda che si è fatta Rosina Platì, la mamma di Giuseppe Demasi, uno dei ragazzi rimasti uccisi nella tragedia: che è successo?

Intanto è successa la concessione della semilibertà ai due manager, che arriva inaspettata perché dopo le parole del procuratore generale Saluzzo avevamo creduto fossimo arrivati alla fine di un percorso iniziato 12 anni fa, e di cui voglio ricordare brevemente le tappe: nella sentenza di primo grado l’amministratore delegato Harald Espenhahn è stato condannato a 16 anni e mezzo di carcere per il reato di omicidio volontario con dolo eventuale. Poi, dopo 5 gradi di giudizio – due appelli e due cassazioni -, nel 2016 la sentenza definitiva è stata di 9 anni e mezzo per omicidio colposo con colpa grave. Va ricordato che i 4 manager italiani sono tutti arrestati il giorno dopo la sentenza definitiva, anche se hanno poi scontato in carcere solo un anno e mezzo ricorrendo alle pene alternative. Quello che è avvenuto poi è che i 9 anni e 8 mesi comminati in Italia, per lo stesso reato in Germania valgono al massimo 5 anni. Noi eravamo avviati ad accettare questo come un dato di fatto, invece è arrivata la richiesta di semilibertà, che il tribunale di Essex ha accolto senza che i due manager tedeschi abbiano scontato neanche un solo giorno di carcere. Quello che fa rabbia è che per chiedere la semilibertà avrebbero dovuto almeno esserne privati. Invece a quanto pare in quel land viene concessa facilmente. E io mi chiedo come sia possibile che per la morte di sette persone, per cui vengono identificati sette colpevoli,  a oggi nessuno stia scontando una pena.

I due manager tedeschi potranno continuare a lavorare, magari alla stessa Thyssenkrupp. Come è possibile?

Questo è sicuramente un altro aspetto. Però ricordo che anche Marco Pucci, uno dei manager italiani condannati, era stato indicato come amministratore delegato dell’Ilva di Taranto. Ce ne accorgemmo e dopo la mia denuncia in un post facebook, grazie all’interessamento di Mentana, che confermò la notizia e la denunciò, non se ne fece più nulla. Quindi ne abbiamo viste tante e tutto questo crea sconforto. La nostra sembrava una vicenda in cui una volta tanto a chi muore lavorando, agli operai, venisse riconosciuto quantomeno un processo giusto. E invece i manager più importanti non faranno un giorno di carcere e continueranno a svolgere il loro lavoro.

Crede ci sia un buco nella legislazione, anche in Italia?

Innanzitutto in questo caso c’è senza dubbio un problema di rapporti tra Paesi, visto che la Germania non riconosce il processo in Italia. Il problema vero e grande è questo. E poi indubbiamente c’è un problema legato ai processi per gli infortuni sul lavoro, basti pensare che in certe ragioni non si celebrano neanche. C’è sempre un soggetto debole che non viene tutelato, sebbene abbiamo in Italia una legge, la 81/2008, giudicata da molti una delle migliori in Europa. Bisognerebbe renderla maggiormente applicabile anche attraverso dei controlli mirati. Oggi abbiamo un servizio di ispettorato con una struttura poco efficace perché mancano gli ispettori e mancano i mezzi. Abbiamo l’agenzia unica, ma se fai le riforme a costo zero poi non vai da nessuna parte.

Ricordiamo in breve la vicenda. Quali responsabilità sono state riconosciute ai manager condannati?

Il reato riconosciuto è l’omissione di misure di sicurezza. In quel periodo la Thyssen voleva dismettere lo stabilimento di Torino, un momento delicato in cui dovresti prestare ancora più attenzione alle persone, ricordiamo che lì c’erano figli, padri, fratelli. Invece non si è voluto investire, perché la dismissione è stato deciso dovesse andare così. In un documento trovato nella borsa di Espenhahn c’era scritto che le manutenzioni della linea 5 – quella in cui è avvenuto l’incidente – sarebbero state fatte a Taranto dopo il rimontaggio. Dunque noi non eravamo neanche degni della manutenzione. Del resto lo stesso Espenhahn ha ammesso che chiudere in questo modo era una sua scelta. È una cosa che andrebbe analizzata, ad esempio prevedendo dei protocolli per le chiusure.

Se la sente di raccontare cosa avvenne quella sera?

Eravamo in otto impegnati in una normale operazione di lavoro. Uno dei miei colleghi, Roberto Scola, si accorse di un piccolo incendio, come ormai accadeva spesso. Ci chiama, prendiamo gli estintori ma li troviamo vuoti. Siamo allora andati a prendere una manichetta. Io sono vivo perché avevo in mano l’innesto della manichetta, mentre gli altri erano davanti. Apro l’acqua, ma non arriva. A causa del calore è fuoriuscito dell’olio, e quel tubo è diventato un lanciafiamme. Davanti a me si è alzato un muro di fiamme alto 10 metri, con sotto i miei colleghi che urlavano.

(Il racconto si interrompe, l’emozione è forte in chi racconta, così come in chi ascolta).

E quindi è complicato trovarti a 12 anni di distanza nella condizione di questi giorni, in cui ci accorgiamo che non c’è un responsabile vero. Se penso a quella notte, devo dire che mi aspettavo che la giustizia ci dovesse qualcosa di più.

Adesso che cosa vi aspettate, lei insieme ai parenti delle vittime?

In 12 anni e mezzo abbiamo fatto di tutto, e devo dire che abbiamo sempre avuto le istituzioni con noi, a partire da Laura Boldrini che da presidente della Camera si è sempre battuta per noi. Oggi mi aspetterei quantomeno che l’Italia prendesse una posizione forte, intanto sulla sicurezza sul lavoro, ma anche rispetto alla decisione della Germania.

So che non è semplice, ma ritengo grave quanto avvenuto e vorrei, almeno, una presa di posizione da parte dell’Italia. Sono consapevole che non cambierà molto, ma il mio Paese mi deve almeno questo. Lo dobbiamo a chi non c’è più e ai loro familiari.  

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