Ripensare il sistema-cultura per traghettarlo fuori dalla crisi
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La crisi drammatica che stiamo attraversando ha colpito in modo durissimo il mondo della cultura, il primo a fermarsi e l’ultimo a ripartire. Il governo ha fatto e sta facendo molto per provare a contenere i danni causati dall’emergenza ma tanti problemi restano sul campo. Perché, a dirla tutta, c’erano anche prima della pandemia. E oggi vengono fuori ancora più aggravati.

Gli operatori che lavorano nella catena che produce intrattenimento e cultura hanno spesso pochi diritti, scarse tutele, certezze inesistenti. Oggi che il ritorno alla normalità tarda ad arrivare per chi fonda la propria ragion d’essere proprio sull’ “assembramento”, sul rapporto che si crea tra artista e pubblico, la condizione in cui sono costretti a vivere migliaia di musicisti, di attori, di tecnici è insopportabile. 

Tanti di loro lo hanno spiegato in questi giorni attraverso diverse iniziative volte ad affermare un principio: sono lavoratori. Lavoratori come tutti gli altri. Sembra un’affermazione banale ma di fronte a una narrazione che li descrive come artisti che «ci fanno tanto divertire» e che bisogna limitarsi a ringraziare, allora no, non lo è. 

E a conferma di ciò, a dimostrazione che non è mai questione di uscite infelici, agli Stati generali voluti dal presidente del Consiglio, in tutti i settori sono stati invitati a partecipare i sindacati, le categorie, le associazioni, le imprese mentre per la cultura si è scelto di invitare nomi eccellenti.

Hanno detto cose giuste e condivisibili ma è lo schema stesso che dimostra la fatica a riconoscere legittimità a questo pezzo di mondo del lavoro e a trattarlo come tale. Perché se fare cultura è un lavoro, e il lavoro è tale solo se è pagato, dignitoso e sicuro, allora le politiche da mettere in campo sono strutturali, le responsabilità aumentano e aumentano gli impegni da assumere. Girarsi dall’altra parte non è consentito.

Abbiamo il dovere di fare di più e di rispondere con serietà alla richiesta di cambiamento che sta arrivando forte e chiara. Lo scorso 21 giugno, in occasione della festa della musica, quasi tutti i più grandi artisti italiani hanno usato la propria immagine per difendere la condizione di tanti lavoratori e per chiedere tutele per chi ha meno voce. Lo hanno fatto pubblicando una canzone dal titolo #senzamusica, come il nome della loro campagna, nella quale si sente solo un fruscio di sottofondo. Niente note, niente melodia, niente testo. Lo hanno fatto scendendo in piazza a Milano vestiti a lutto. Lo hanno fatto rilasciando interviste, scrivendo, esponendosi

Hanno chiesto di approvare degli emendamenti al decreto rilancio, emendamenti in larga parte presentati da noi, dal Pd. Emendamenti che non risolvono tutti i problemi ma che sono almeno un inizio: estendere le misure di sostegno anche ai lavoratori intermittenti di questo settore; sostenere le imprese che fanno musica; aiutare i tanti piccoli luoghi dove si fa musica e teatro; aiutare e sostenere chi prova a ripartire davvero, dal vivo e non in streaming. 

Ma appunto è solo l’inizio, perché non basta gestire l’emergenza e consentire al sistema culturale italiano di sopravvivere. Occorre traghettarlo al di fuori della crisi utilizzando questa fase per ripensarlo, ridefinirlo.  

Perché non ragionare di uno statuto del lavoro culturale e creativo che rimoduli un sistema di welfare specifico ed equo per questo settore? Perché non disegnare un sistema di diritti, tutele e garanzie tali da consentire di svolgere queste professioni dignitosamente? Oppure, dal lato delle imprese culturali costrette spesso ad improbabili forme giuridiche, perché non ripensare un impianto normativo su misura che tenga conto delle caratteristiche uniche di questo settore? E perché non ragionare su come la cultura e l’arte possano contribuire ancora di più a migliorare la qualità della nostra democrazia? Questa pandemia sta ridefinendo le nostre abitudini e i nostri stili di vita. Cerchiamo almeno di non subire questo aspetto ma di progettarlo. Ripensando l’interazione con le nostre città, trasformando quelli che oggi sono solo spazi in luoghi aperti dove si produce e fruisce cultura.

Come sempre in politica tutto è questione di scelte. Un brano senza né musica, né parole, come quello pubblicato dagli artisti italiani, è una sconfitta che non possiamo accettare. Si approvino gli emendamenti e ci si dia da fare insieme per restituire dignità a tanti lavoratori e a quella canzone le note e le parole che merita.

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