L’ultimo caso soltanto qualche giorno fa a Napoli, dove una ragazza di 12 anni è finita in ospedale perché derisa per il suo aspetto fisico. Poi il gruppetto che andava in discoteca con le magliette con la scritta “Centro stupri” e lo trovava divertente.
Ma prima di loro ce ne sono stati altri, davvero troppi, di ragazzi che hanno subìto violenze fisiche o verbali, dal vivo come in chat, come se poi avessero una qualche differenza. C’è chi reagisce, chi si isola, chi rimane schiacchiato.
Proprio come successe nel 2013 a Carolina Picchio, una giovane ragazza di Novara che si è tolta la vita per le continue, tremende, offese che riceveva sui social. Aveva 14 anni. Da quella esperienza tragica il padre Paolo ha deciso di fondare un’associazione con lo scopo di aiutare e sensibilizzare sull’argomento, perché fatti così non succedano più. La prima legge contro il cyberbullismo, la 71-17, è stata dedicata proprio a lei. Ma tanta strada c’è ancora da fare, e i fatti di cronaca ce lo ricordano in continuazione.
Sarebbe un errore pensare che con il periodo di lockdown la situazione sia stata arginata in qualche modo. Complice l’isolamento forzato, per gli adolescenti, i social sono diventati l’unica finestra sul mondo: “L’aumento dell’uso dei dispositivi tecnologici, uniti al non controllo da parte dei genitori ha aumentato in maniera esponenziale i casi di cyberbullismo” ci ha detto Ivano Zoppi, segretario generale della Fondazione Carolina, “tanto che le richieste di aiuto alla nostra associazione sono quintuplicate“. Un numero che fa paura anche perché non riguarda soltanto i ragazzi vittima di violenze on line, l’aumento delle condivisioni di immagini a sfondo sessuale trasmesse nelle chat è impressionante, ma anche di tanti adulti, a partire dai docenti, che con la didattica a distanza hanno subìto scorrettezze nella rete senza precedenti.
Con più tempo a disposizione, maggiore noia da sconfiggere e più frustrazione, il periodo di lockdown ha istigato i ragazzi ad essere più violenti e a diversificare le violenze su più fronti, incuranti delle conseguenze emotive e psicologiche. “Le piattaforme più utilizzate – ci spiega ancora Zoppi – sono Instagram, non più per condividere foto, ma per fare stories con il desiderio di raccontare le proprie giornate ma anche con l’alibi che quelle immagini sono temporanee. Un messaggio pericoloso perché non corrisponde alla realtà: è giusto ricordare, infatti, che tutto quello che passa nella rete non scompare, anche se non è immediatamente visibile, ma rimane per sempre. E poi c’è TikTok, fenomeno nuovo e preoccupante. Anche qui c’è l’elemento temporaneità che sembra determinante ma è solo illusorio”.
Il bullismo può colpire tutti in maniera indifferente e coinvolge tutti, da chi mette in atto violenza a chi non fa niente per impedirla: una sorta di ‘democrazia della violenza’ dove ad essere colpiti sono i più fragili. “Questi ragazzi hanno tante informazioni sul cyberbullismo, hanno grandi competenze informatiche ma spesso non hanno gli strumenti emotivi per affrontare la vita sociale. A molti manca l’empatia, cioè la capacità di capire se quello che sto facendo può fare male a qualcun altro” riflette Zoppi. Ma chi insegna al rispetto se non la famiglia e la scuola? “Per legge i ragazzi sotto i 14 anni i ragazzi non potrebbero avere nemmeno un profilo social, eppure sappiamo che non è la realtà. Molti bambini, già a 7 o 8 anni, vengono lasciati con il cellulare in mano e completamente soli. Un po’ per disinteresse ma un po’ anche per un gap tecnologico che li divide dai loro genitori. Con i plessi scolastici chiusi è mancato, ancora di più, il primo presidio contro la violenza”, conclude il segretario generale.
Il cyberbullismo non è, quindi un problema di gestione della tecnologia, e non si risolve con qualche punizione esemplare, ma è un problema educativo e così va affrontato. Secondo i dati forniti dalla Fondazione Carolina, il 50% dei ragazzi che hanno subìto violenze di ogni tipo ha deciso di non parlare con nessuno. Il motivo? Hanno paura o vergogna, sono omertosi o non hanno un adulto come figura di riferimento. Un bel problema per chi ha un ruolo educativo.
E allora nella scuola di domani, su cui in questo momento si sta ragionando molto, parlare in maniera consapevole e non improvvisata dell’uso scorretto della rete, è diventato tremendamente necessario. Perché non si arrivi, certamente, a casi limite ma anche perché la violenza non diventi la normale dialettica fra giovani. “Non si può parlare di questo fenomeno soltanto una tantum – ci dice ancora Zoppi – bisogna parlare di rispetto e di intimità ogni giorno. Bisogna insegnare l’empatia e governare un fenomeno complesso come questo già a partire dalle scuole elementari per educare ai sentimenti più puri”.
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