Mancano pochi secondi alla presentazione del suo libro “L’amore non basta” e mentre sto per chiedergli disponibilità per un’intervista, una delle maestranze del retropalco scappa via come una scheggia per un’esigenza tecnica, facendo volare gli occhiali da vista.
Se vi chiedete chi è ancora oggi Don Ciotti, in un’immagine chiara e definita, vi dico subito che lui è quello che si china per raccoglierti gli occhiali, pulirli e posarli con cura sul tavolo.
In un gesto la sintesi di quello che ha fatto con l’umanità più debole che ha incontrato nei suoi 75 anni. Eppure preferisce non parlare di amore.
L’amore, la parola più usata nelle canzoni, il sentimento più inflazionato nei film, la forza che muove energie e rapporti nella vita di tutti noi. Ma l’amore, purtroppo, non basta, dice Don Ciotti.
Non basta per ottenere giustizia sociale. Non è sufficiente per ottenere la pace, non riesce da solo a farci comprendere il diverso, il fragile, l’invisibile. Il libro, lungi da essere autoreferenziale si piega per incontrare l’altro, diventando nella stessa definizione che ne da l’autore una “autobiografia collettiva”. Il testo, infatti, non si limita a ripercorre i 55 anni del Gruppo Abele, fondato per dare l’opportunità di chi vive ai margini di trovare la forza per risorgere e i 25 anni di Libera, associazione nata per combattere la mafia, questo libro sa parlare alle coscienze con la forza della verità.
Don Ciotti partiamo dall’attualità, spesso il Covid viene associato ai migranti, cosa pensa della narrazione che viene fatta in questo senso?
“Abbiamo bisogno di parole di verità, serve che la manipolazione della realtà venga impedita. Inoltre non possiamo più accettare l’attuale olocausto a cui stiamo assistendo in mare. Sento in questo senso voci di proteste fioche e deboli, anche da parte dell’Europa. Quello di cui l’umanità ha davvero bisogno è un cambiamento vero e non un adattamento. La normalità di prima era già malata”.
Quali sono i mali che ci impediscono un’evoluzione?
“Ci portiamo dietro anni di impoverimento economico e disorientamento sociale a cui si aggiunge la scarsa competitività del tessuto produttivo e la polarizzazione della ricchezza. Questo si abbina ad una pericolosa depressione culturale e una povertà educativa che va assolutamente combattuta. Nessuno, voglio dirlo, è causa della sua povertà”.
Quindi, come uscire da questa situazione?
“Usciamo dalla logica dell’io. Noi siamo strumenti per il noi. E l’altro ci restituisce una relazione che ci mette in connessione continua. Parliamo di interazione. Anche per questo parlo di autobiografia collettiva, definizione che può sembrare contraddittoria ma non lo è”.
E in effetti nel testo scorrono una serie di personaggi che, ognuno per la propria storia, testimoniano il senso di comunità vissuto pienamente. Un quadro in cui non possono mancare i riferimenti alle infiltrazioni criminali e alle battaglie portate avanti in questi anni.
Quale è oggi il rischio più grande?
“Sono 166 anni che parliamo di mafie e purtroppo attualmente serpeggia un convincimento da cacciare via immediatamente e cioè che niente cambierà. Io dico no. Il cambiamento che vogliamo è possibile. Dobbiamo essere annunciatori di forza e di speranza. Abbiamo fatto enormi passi avanti, ma non dobbiamo abbassare la guardia. Il paradigma va cambiato. Ne usciremo solo grazie agli ultimi, col protagonismo dei giovani che sono il nostro futuro. L’amore non basta, ma l’impegno per cambiare il mondo è sicuramente un buon inizio. Con l’aiuto di tutti, possiamo farcela”.