Nel 2007, insieme ad Anita Pirovano pubblicammo i risultati di un lavoro di ricerca psicosociale sulle strategie di conciliazione sistematicamente inventate e re-inventate dalle donne italiane: in particolare quelle che provavano a svolgere lavori full time, corrispondenti ai titoli di studio acquisiti, abitando, come già frequentemente accadeva, in Comuni distanti dalle famiglie d’origine – e dunque prive di una rete famigliare di sostegno – e che avevano un partner e uno o due figli/e.
Nei racconti di quelle donne – acculturate, capaci, impegnate, riflessive – tutto ciò che era possibile realizzare nella vita quotidiana era comunque frutto di un impegno organizzativo costante, il cui esito era un equilibrio perennemente precario, quasi sempre basato sulla presenza di un’altra donna – una tata, una babysitter – con la quale si costruiva un legame che mescolava professionalità, affetto e aiuto reciproco (tanto più se a sua volta, questa donna, aveva personali carichi di cura). Nel quadro che ne emergeva i Servizi, in particolare quelli per l’infanzia e l’età scolare (che sono un periodo evolutivo che dura più di un decennio, non qualche mese) si rivelavano assenti o, quando c’erano, poco accessibili (per graduatorie, raggiungibilità, costi, orari) e comunque insufficienti (in particolare se rapportati alle richieste di impegno di occupazioni full time, magari organizzate per obiettivi).
Il tratto prevalente nelle narrazioni era una grande fatica, un continuo esercizio acrobatico, la sensazione di solitudine e di vuoto, in particolare rispetto al fatto di vivere un vita da inventare in autonomia, che nessuno (e tanto meno la politica) sembrava aver immaginato come la semplice “normalità quotidiana” di coppie composte da partner entrambi con un buon titolo di studio, un buon lavoro e il desiderio, non sempre facile né lineare da realizzare, di avere dei figli/e. Senza che la donna a rinunciasse ad una piena partecipazione allo spazio pubblico – anche solo accettando un part time “involontario”, come da versione tradizione dei ruoli. E se questa impossibilità a conciliare davvero, senza rinunce parziali o totali, investiva anche questa quota minoritaria delle popolazione femminile, acculturata, residente nelle grandi città, con partner paritari e strumenti organizzativi a disposizione, cosa significava la conciliazione per il resto delle donne?
Sono passati 13 anni da quel nostro lavoro di ricerca, ed è passata anche la Task Force Colao, di cui ho fatto parte come psicologa sociale e coordinatrice del Gruppo di Lavoro “Individui, famiglie e società”. E siamo ancora lì, dove eravamo nel 2007, anzi in una condizione peggiorata dalla crisi economica del 2008, e poi, certo, dalla pandemia di Covid-19 che ha fatto esplodere le disuguaglianze, tutte. E in maniera non più celabile né rinviabile la disuguaglianza tra i generi, a sistematico svantaggio delle donne: perdita di lavoro; carichi e sovraccarichi di cura; inconciliabilità delle richieste, delle esigenze, dei tempi di vita; riduzione della progettualità personale e professionale – compresa la genitorialità -, ridotta autonomia economica, aumentati rischi di violenza di genere… un quadro sconfortante.
Per questo, come mostrano i dati recenti del World Economic Forum, se non si mettono in atto azioni specifiche, per ridurre il Gender Gap e raggiungere l’equità tra i generi ci vorranno 257 anni.
Lavoro da sempre all’università pubblica con studentesse e studenti nella fascia d’età in cui si progetta in modo adulto il proprio futuro e lo si vorrebbe provare a realizzare. E mi chiedo se davvero l’unica prospettiva che possiamo continuare ad offrire consiste nel chiedere alle giovani donne di essere Wonder Woman (personaggio che non a caso, oltre ai poteri speciali che possiede, è anche unica), oppure di rinunciare (al lavoro, ai figli, al reddito, alla dimensione pubblica, quale che sia). E ai giovani uomini di negoziare spazi sul loro lavoro (che magari non c’è, è precario etc.) per realizzare finalmente la condivisione (dei carichi di cura ma anche più in generale dei tempi di vita), dentro culture sociali e aziendali arretrate come la nostra?
Per questo nel Gruppo di Lavoro che ho coordinato nel Comitato Colao, con alcune colleghe e pochi tra i colleghi, abbiamo scritto proposte concrete e radicali (sintetizzate in Schede disponibili in Rete) sulla parità di genere (che è stata anche inserita come terzo asse del Piano, insieme alla Digitalizzazione e alla Green Economy) inerenti il lavoro, lo studio, l’educazione finanziaria, i servizi, la riflessione culturale. Radicali perché non chiedono di realizzare una singola azione, ma finalmente di intervenire in modo sistemico e sistematico (e con gli investimenti economici necessari) su tutti i piani contemporaneamente, con un Programma Nazionale di riduzione della Stereotipia di genere, che passi attraverso misure concrete e misurabili: un piano straordinario per l’occupazione femminile, il raddoppio e la distribuzione su tutto il territorio nazionale dei nidi pubblici e privati, l’educazione finanziaria per entrambi i generi, politiche attive di conciliazione con Presidi di resilienza presenti sui territori e nei quartieri, strumenti come il congedo parentale per la condivisione tra partner, superamento del Digital Divide al femminile e della mancanza di competenze di cura al maschile (sia a partire dalla scuola dell’infanzia, sia intervenendo su tutto l’arco di vita), istituzione di statistiche pubbliche ufficiali e di sistemi di monitoraggio annuali di stereotipi e discriminazioni, attribuzione automatica del doppio cognome (salvo diversa indicazione della coppia), reddito di libertà per le donne in uscita da percorsi di violenza, eliminazione del linguaggio sessista nella formazione e nelle diverse forme di comunicazione. Cosa c’è di innovativo in tutte queste proposte? La necessità non rinviabile di realizzarle tutte, almeno questa volta, senza perdere un’occasione storica.
Reddito di Base Universale e questione femminile
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