Ripresa e resilienza sono le due parole scelte per segnare la risposta europea alla crisi generata dalla pandemia ancora in corso, e per delineare traiettorie e missioni future del continente e del paese.
Il peso che avranno questi due termini dipenderà in buona parte da ciò che sarà indicato nei vari piani nazionali e dall’effettiva efficacia che essi avranno nei mesi e anni a venire. Non sfugge che un piano di queste dimensioni – vale la pena ribadire l’eccezionale consistenza che esso avrà in particolare per il nostro paese – non possa essere confinato in una dimensione meramente burocratica.
Si avrà indubbiamente bisogno di grande perizia tecnica, e su questo si può star certi che il lavoro che si sta compiendo è affidabile e serio. Allo stesso tempo, per avere reale efficacia e un impatto duraturo, dovrà essere materia di dibattito, dovrà scegliere tra gli interessi e i bisogni in campo, dovrà fare i conti con l’opinione pubblica, le parti sociali, i parlamenti nazionali e il parlamento europeo.
In quest’ultimo, che ha sempre e per primo sostenuto un intervento economico coraggioso e solidale, è in corso la discussione sul regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio che istituisce un dispositivo per la ripresa e la resilienza.
In una delle sue Commissioni, la FEMM, quella dei diritti delle donne e uguaglianza di genere, il dibattito parlamentare si è incentrato sull’impatto che avranno i piani sulla diseguaglianza di genere. Che la crisi economica abbia avuto un peso sproporzionato per le donne, sia in termini di aumento della disoccupazione che di violenza domestica è ormai pacificamente ammesso. Che il nostro paese abbia da recuperare anni di arretratezza sul divario di genere, oltre che su quello territoriale, e che questo pesi sulle spalle di uno sviluppo equilibrato e veloce del paese è espresso praticamente in ogni documento ufficiale, sia esso nazionale che europeo.
È una raccomandazione anche formale che ricorre annualmente, senza sortire alcun effetto significativo. Insomma, il rischio che anche questa volta appare concreto è che la “questione di genere” venga ben esposta in qualche paragrafo di qualche oscuro documento, ma che non trovi sua applicazione in nessuna delle scelte e indirizzi effettivi di spesa.
La posizione che molti parlamentari europei hanno tenuto negli ultimi negli ultimi mesi sul tema è stata anche oggetto di scherno. Io per prima ho dovuto affrontare la solita valanga social di commenti sprezzanti e di derisione. Ora credo che nessuno rida più, perché ci si accorge, sempre in ritardo, che la crisi sta mordendo e che la qualità della vita delle donne è quella che più ha risentito della crisi.
Ci si accorge, inoltre, che non chiediamo la luna e che non stiamo assaltando il cielo. Misure mirate e concrete sull’occupazione e sull’accesso al credito per le donne, piani i cui impatti sul divario di genere siano valutati con rigore statistico, coesione sociale a partire dalle questioni generazionali e di genere: non sono capricci, è buon senso.
Faccio giusto due esempi, per intenderci. Se la transizione digitale non favorisce anche un maggiore equilibrio tra i tempi di lavoro e di vita, che transizione digitale è? Chi ne beneficerebbe? Se la transizione green non favorisce un rapporto più sano tra città e ambiente, trasporto pubblico e tempi di lavoro e scuola, che transizione green è? Chi ne beneficerebbe?
Ecco, la questione di genere non è un paragrafo a sé, ma attraversa tutti i nodi della contemporaneità, specie in paesi dallo sviluppo sociale ed economico più arretrati, come il nostro. Non vorrei che di femminile restassero, alla fine, solo i termini ripresa e resilienza.
Pina Picierno è parlamentare europea del Partito Democratico
Sono d’accordo, la questione dell’uguaglianza di genere e la questione della scuola devono essere centrali nel piano di ricostruzione. Le due cose sono anche correlate. Penso alla riforma della scuola per gli anni 0-6 e alla offerta di asili nido, in particolare nel mezzogiorno, che dovrebbero favorire l’occupazione femminile