Liliana Segre, come “prendersi cura” del futuro
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“Io ancora bambina diventavo più vecchia ogni volta che mio padre tornava in cella dagli interrogatori dei nazisti. Perché diventavo sua madre. Mi prendevo cura di lui e lui aveva bisogno delle mie cure”…

Liliana Segre e suo padre sono stati rinchiusi nel carcere di San Vittore per 40 giorni prima di essere deportati ad Auschwitz e separarsi per sempre. Aveva 13 anni Liliana e già nel 1938, all’età di 8 anni, era diventata una bambina “invisibile”. Ebrea, figlia di ebrei, cacciata dalla scuola, rifiutata e dimenticata e punita perché ebrea. Era il gennaio-febbraio del 1944 quando infine salì su quel treno della morte.

Con voce piana, senza incrinature né incertezza, non una lacrima compassionevole sulla sua faccia pulita, ma appena percettibile una smorfia di intimo dolore che di tanto in tanto affiora nel suono e negli accenti delle parole pronunciate, la senatrice Liliana Segre parla davanti a un’affollata platea – gremita di giovani – sotto un tendone ai piedi di un borgo millenario sulle colline di Arezzo. Si chiama Rondine questo borgo, e la cittadella della Pace che vi fu fondata quasi trent’anni fa per un’ardita scommessa di Franco Vaccari “contro l’odio e i conflitti”,  oggi accoglie forse la più potente e toccante testimonianza di una superstite della Shoah. E quella platea di studenti e autorità dello Stato (mezzo governo e i presidenti dei due rami del Parlamento), rendono omaggio e ascoltano Liliana trattenendo il fiato.

Lo scopo della sua vita è stato quello di trasmettere la memoria. La memoria di un orrore e dell’attitudine degli uomini di concepirlo e praticarlo. Perciò i giovani sono nel cuore di Liliana Segre, perciò il suo gesto di consegnare proprio a loro un’ultima testimonianza parte da quell’episodio di San Vittore, del “prendersi cura” di un padre.

“Perché voi siete nel pieno del vigore” dice alle ragazze e ai ragazzi raccolti attorno a quel palco, con lei al centro e sopra di lei un cartello giallo con un enorme “Grazie, Liliana!. “L’adolescente – dice – è più forte del bambino, che è ancora fragile, e dell’adulto che può anche incontrare la debolezza”. E allora: “Siate voi, perché potete e siete i più forti, a prendervi cura della realtà che vi circonda per renderla migliore”. “Quella memoria vi aiuta a capire e a mettere un passo davanti all’altro, senza mai più calpestare gli uomini e la loro dignità”.

E mai, forse, un testimone viene passato da una generazione all’altra con una motivazione così vigorosa, avvincente, quasi ineluttabile…

Ho portato mio figlio Dario, di 11 anni, a questo evento di Rondine. Ha già letto di Liliana Segre “Scolpitelo nel vostro cuore” e “Fino a quando la mia stella brillerà”, ma volevo li toccasse con mano e li vivesse lì quei racconti e quelle emozioni. E infatti, alla fine, mi ha detto: “Papà è stato incredibile: ogni momento ho pensato, guardandola, che quelle mani, quegli occhi, quelle orecchie erano gli stessi che avevano ascoltato, toccato e visto tutto il dolore e la disperazione di quella tragedia, e non capivo come la sua faccia senza pianto e senza vendetta fosse solo concentrata su di noi e sul nostro futuro”…”Non pensavo che Liliana fosse ancora così forte. Deve essere fortissima dentro!”…

Ecco: quel testimone è arrivato, deve arrivare, arriverà .

Prendersi cura di sé e della relazione con l’altro. Non nascondersi, non chiudere gli occhi, non voltarsi dall’altra parte. L’indifferenza è nemica dell’umanità, cioè dell’esser capaci di coltivare un umanesimo che accoglie e non respinge, che soccorre e non si tira indietro, che consola per vincere e non per arrendersi. E qui sta tutta l’attualità di tale memoria.

Così Liliana Segre, nella Cittadella della Pace di Rondine consegna altri due possenti messaggi: contro l’indifferenza e per scegliere di essere liberi.

La mia amica Janine

… “Io non dimenticherò mai quel giorno, ad Auschwitz-Birkenau, alla selezione di noi schiave-operaie tra chi era in salute e chi no… Da quando avevo stretto per l’ultima volta la mano di mio padre e fummo divisi, io per continuare a vivere e lui per andare a morire, non volevo più – se mai quel luogo in cui ero lo potesse persino concepire – coltivare nessun affetto o amicizia, perché non avrei retto, non volevo vivere la possibilità di un’altra perdita, di un’altra separazione. Ma nel mio lavoro nella fabbrica di munizioni, ogni giorno portavo quello che realizzavo con la mia macchina ad una compagna di reparto, una ragazza francese di nome Janine. Ogni giorno, ogni settimana, ogni mese era così. Non la posso chiamare un’amicizia, ma ci guardavamo in silenzio e ci univa forse l’orrore di quel posto e la disumanità dei nostri carcerieri. Janine un giorno perse due dita sotto la macchina e quando si trattò di sfilare nude davanti ai nostri aguzzini, con Joseph Mengele che giudicava chi era sana e chi non lo era, con un solo cenno del capo Janine fu destinata alle camere a gas. Io ero passata poco prima e lei seguiva subito dopo di me. Ma non mi voltai, non volli guardarla negli occhi né salutarla. E così la persi per sempre, senza neanche un segno di complicità”.

“Ci volevano così i nostri aguzzini” riconosce la Segre. Ma c’era in quei luoghi atroci, una fame di vita, un bisogno di sopravvivere e di sconfiggere la morte più forte di qualsiasi altro sentire. Nessun altro sopravvissuto forse ha mai raccontato con questa stessa cruda sincerità le dinamiche degli uomini e delle donne che hanno subito il campo di sterminio. Ma Janine, dopo molti anni, prima nel silenzio poi nella missione della testimonianza tra gli studenti del mondo, è diventata una formidabile e irresistibile leva di riscatto per Liliana Segre contro l’indifferenza, l’odio, la violenza del più forte. E anche a Rondine la senatrice ha ribadito l’assoluta contemporaneità del suo messaggio, evocando senza citarla la violenza del branco contro un innocente di nome Willy Monteiro Duarte, assassinato perché “diverso”, “altro”, come “l’altra” era diventata lei con le italianissime leggi sulla razza del 1938.

Dunque l’indifferenza, anche quella, soprattutto quella di chi sapeva e non faceva niente. “Come quelle finestre sempre chiuse – sottolinea Liliana – che incontravamo lungo il percorso della marcia della morte fino alla fabbrica di munizioni in territorio tedesco. Mai nessuno che semplicemente ci regalasse un’occhiata, una curiosità, un interesse”.

Questo è un altro di quei “perdono” che Liliana Segre non è riuscita a dare. Non ha perdonato tutti quelli che hanno assistito indifferenti di fronte al nazismo e al fascismo. Quelle “finestre chiuse” continuano ad essere una disperante ossessione di ciò che l’animo umano può serbare persino di fronte all’indicibile. E le “finestre chiuse” dell’oggi si debbono a tutti i costi riaprire, purché si sappia, perché si possa gridare contro l’abominio.

“No, io non perdono i miei aguzzini, proprio non reggo all’idea di poterli perdonare” ha ripetuto ai ragazzi e alle autorità sotto il tendone. Ma…

Una donna libera!

Ma un futuro va sognato, non va subìto. E perciò servono il coraggio e la responsabilità, bisogna avere “la coscienza – dice Liliana – dell’importanza delle proprie azioni”. E così racconta ai ragazzi di Rondine un ultimo aneddoto che è del passato ma da declinare tutto al futuro.

“Stavano arrivando gli americani da ovest e i russi da est, i tedeschi scappavano, buttavano le divise e si vestivano di abiti civili. Tentavano di disfarsi dei loro cani, quegli orrendi mastini che furono un marchio dei nazisti nei campi di sterminio, che però tornavano e non se ne andavano, e loro li scacciavano… Come il passato che ritorna e non dà scampo alle tue colpe… Davanti a un gruppo di noi il comandante del campo, un uomo tanto elegante d’aspetto quanto spietato dentro, si spogliò dell’uniforme e cominciò a indossare abiti anonimi. Aveva buttato il cinturone con la pistola quasi a un passo da noi… Io guardavo quella pistola, che conoscevo bene e che avevo visto usare tante volte prima contro molti di noi, e la stavo per raccogliere e premere il grilletto. Sì, volevo uccidere il mio aguzzino. Ma non lo feci. Ed esattamente in quel momento divenni una donna libera”.

L’applauso sotto il tendone è durato una decina di minuti. Non finiva più e Liliana Segre voleva che finisse quell’applauso e che si incominciasse una nuova storia.

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