App Immuni e contact tracing, cosa è andato storto nel sistema dei tracciamenti. Intervista a Luca Foresti
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Tra la prima e la seconda ondata, in tutta Europa, il sistema di tracciamento dei contagi non ha funzionato come avrebbe dovuto. Nel nostro Paese l’app Immuni scelta per il tracciamento non ha dato i risultati sperati e una falla nel cosiddetto contact tracing digitale non può essere certo negata. Ma al di là delle polemiche strumentali, che hanno visto alcuni leader trasformare uno strumento di prevenzione sanitaria in strumento di lotta politica, cosa si potrebbe fare ancora per rendere quel meccanismo più utile ed efficace? E cosa è andato davvero storto?

Ne abbiamo analizzato le cause con Luca Foresti, contributore alla prima fase dello sviluppo dell’App Immuni, tramite un progetto che poi ha dato luogo alla partecipazione dell’azienda Bending Spoon al bando indetto dal governo. Luca, amministratore delegato del Centro Medico Santagostino di Milano, è un fisico e come tutti i fisici cerca sempre di essere il più pragmatico possibile. A colloquio con Immagina ha messo il dito nelle piaghe di quello che a suo giudizio non è andato per il verso giusto, in generale nel processo del contact tracing (“altri sistemi oltre a Immuni volendo ci sono”) e in particolare nella gestione dell’App (“è mancato lo scaricamento a terra”), tutti ragionamenti utili a stimolare un miglioramento di quel meccanismo che può ancora tornarci utile. Non tanto adesso, visto che l’enorme diffusione del virus rende quel sistema non molto adeguato (“senza un lockdown al momento è difficile contenere l’evoluzione dei contagi”), quanto piuttosto nel momento in cui la curva scenderà. In quel caso, infatti, dovremo farci trovare pronti per tenerla a bada anche con strumenti di contact tracing.

Con Luca abbiamo approfondito il funzionamento di Immuni e i suoi limiti gestionali, il cui vero problema è legato a quello che lui definisce “lo scaricamento a terra” del progetto, ovvero l’incapacità di gestire i vari passaggi sul territorio. Perché, in effetti, sebbene il protocollo tecnico sia basato su un corretto funzionamento, è stata la sua declinazione a non funzionare, come ad esempio la mancanza di personale adeguatamente istruito per segnalare i contagi. In pratica quello che è stato pensato a monte dal governo centrale si è poi perso nella diffusione sul territorio. Con il decreto ristori è stato istituito un call center per gestire meglio la situazione, basterà? È la strada giusta?

Nelle vesti di Ad del Centro Medico Santagostino di Milano, gli abbiamo chiesto anche una disamina su quello che può essere utile oggi alla sanità pubblica, passando per un giudizio sul Mes e concludendo con alcune considerazioni su come affrontare l’inoculazione del vaccino, quando prima o poi ne arriverà uno.

Luca Foresti, partiamo dalla situazione attuale dei contagi. Da fisico come spiega l’evoluzione della curva? Cosa dobbiamo aspettarci?

La curva è visibile a tutti e ogni giorno l’RT cambia a seconda delle norme, dei comportamenti che le persone assumono nei luoghi di lavoro, di quello che accede nelle scuole, negli spazi pubblici. Ognuna di questa variabili dà un piccolo contributo all’andamento della curva, in positivo o in negativo. Va detto anche che loro incidenza si basa su studi molto difficili da decifrare in quanto legati a una bassa quantità di dati e quindi a una statistica insufficiente.  

Se però la curva dei contagi è soggetta a rumore di fondo e interferenza, quelle delle terapie intensive e dei decessi sono curve tendenzialmente pulite. E sono davanti agli occhi di tutti, esponenziali e in forte crescita. Senza un lockdown, al momento è difficile fermarle con facilità. Il tema è semplice: quando hai un esponenziale che raddoppia ogni 7-8 giorni, come sta accadendo ora, devi giocare di anticipo. Se fermi l’esponenziale una settimana prima, poi avrai la metà dei casi. È di una evidenza chiarissima. Inoltre non sappiamo nemmeno i casi reali di Covid in Italia, un numero che potremmo conoscere se facessimo test seriologici a una popolazione rappresentativa, almeno una volta alla settimana. Fino a quando non faremo i seriologici non avremo i dati per capire quante persone l’abbiano effettivamente preso.

Cosa fare dunque?

In presenza di un esponenziale, hai due strade per fermare la curva. Puoi fare un testing massivo, come sta facendo la Slovacchia in questi giorni, applicando una strada che trovo molto interessante: hanno testato metà della popolazione, 2,5 milioni di test in un solo giorno. Non è la soluzione perfetta perché sono stati usati test rapidi antigenici, con un tasso di errore di falsi negativi. Ma intanto è riuscita a individuare un numero importante di positivi, che sono stati messi in quarantena.  È come ss si fosse gettata una rete a maglie abbastanza strette, isolando i casi. Se facessimo una cosa del genere qui da noi forse potremmo evitare il lockdown. È un metodo che può funzionare. Sappiamo che non riusciremo a prendere tutti i positivi, ma rifacendolo a distanza di una o due settimane aumenteremmo comunque la quantità. E con circa tre round avremmo abbassato drasticamente la curva. L’altra strada è invece quella di aumentare sensibilmente le restrizioni. 

Spostiamo l’attenzione sull’App Immuni. Cosa non ha funzionato?

Andiamo con ordine: il primo passaggio dell’app è il caricamento dei contagiati sui server, ma in quasi tutto il territorio nazionale questa comunicazione oggi risulta impraticabile perché i medici di base e le Asl non sono state preparate a sufficienza per affrontare questo passaggio. I medici di base ancora non sanno bene cosa fare quando un malato consegna loro il codice Immuni.

Il secondo passaggio riguarda l’arrivo della notifica a coloro che sono stati in contatto con un positivo…

Esatto. E oggi siamo nella situazione in cui se tu dici che hai incontrato un positivo segnalato da Immuni non ti viene fatto il tampone, ma ti viene detto piuttosto di chiuderti in casa. E questo accade su quasi tutto il territorio nazionale, con le persone che poi arrivano a pensarci due volte prima di comunicarlo. Se invece ci fossero dei forti incentivi nell’utilizzare Immuni, il discorso sarebbe differente. Uno stimolo, ad esempio, potrebbe essere quello di avere una corsia preferenziale nel fare i tamponi, ovvero sapere entro 48 ore se si è positivi o negativi dopo aver ricevuto la notifica di un incontro con un positivo nei giorni precedenti.

Ma alla luce dei numeri di questi giorni è ancora possibile secondo lei arginare i contagi con Immuni?

È chiaro che fare contact tracing non è particolarmente efficace con una diffusione così devastante di contagi. Ma dobbiamo già sapere che la curva prima o poi tornerà giù e dobbiamo prepararci già adesso per quella fase.  

Insomma, un primo cortocircuito è stata la gestione del positivo: non potendo caricare i dati degli utenti contagiati Immuni è diventata un’arma spuntata, una sirena acustica senza suono. E poi la gestione di chi ha avuto un contatto con i positivi. Le cose adesso stanno migliorando? Può essere utile l’istituzione di un call center, come avvenuto nell’ultimo decreto ristori?

Certo, quella è stata una scelta giusta, anche se reputo insufficiente la quantità di risorse impiegate, un milione nel 2021 e 3 milioni nel 2022. E non è nemmeno chiaro come verrà declinato sul territorio quel servizio.

Come andrebbe gestito?

Innanzitutto bisognerebbe mettere sulla App un numero di telefono, che tutti possono chiamare. Seconda cosa: il call center dovrebbe avere un collegamento con tutte le 118 le Asl e le Ast, e dovrebbe essere in grado di richiedere tamponi. Quando un cittadino positivo chiama il call center, gli viene chiesto il codice, e da quel momento in poi tutti quelli che nei giorni precedenti sono venuti a contatto con lui dovrebbero ricevere le notifiche. Dopodiché tutti quei contatti, che a loro volta chiameranno il call center, dovranno essere rassicurati sul fatto che entro 24 ore gli verrà fatto un tampone, comunicando loro il luogo e il momento esatto. Solo quando questo flusso funzionerà, potremmo occuparci di quante persone hanno scaricato e attivato Immuni.

Allargando il discorso, quali sono a suo giudizio i problemi principali della sanità pubblica? Innanzitutto le differenze tra le regioni. Quando fai una suddivisione regionale del sistema sanitario nazionale crei inevitabilmente dei sistemi con una capacità di cura molto diversi tra loro. L’altra faglia di demarcazione è relativa alla sanità ospedaliera rispetto a quella territoriale. L’Italia performa piuttosto bene sulla prima, ma fa molta fatica sulla seconda (a parte alcune regioni). C’è tanto lavoro da fare sulla presa in carico territoriale dei pazienti. L’ultimo punto è la gestione degli anziani. Siamo completamente sprovvisti dei servizi per gli anziani che sono ancora autosufficienti e che hanno perso da poco l’autosufficienza. Abbiamo ovviato a queste mancanze con la badante. Quando invece penso ad altri Paesi, vedo mini-alloggi protetti come quelli di stampo nord europeo, che sono probabilmente la strumentazione migliore per tutti gli anziani che devono poter vivere in maniera dignitosa e protetta gli anni di vita che hanno davanti. 

Si parla spesso di aumento di presidi territoriali, aumento del personale, rafforzamento della medicina territoriale. Secondo lei per assicurare un servizio sanitario migliore vanno prese le risorse del Mes? 

Essendo debito,ha senso usare le risorse del Mes solo per fare investimenti e non per aumentare la spesa corrente, perché altrimenti si rischia di rimanere con un debito sulle spalle, che nel lungo periodo può diventare insostenibile. Il Mes, quindi, può essere utilizzato per mettere a posto le infrastrutture. Il punto, però, è che oggi la necessità del Paese è legata soprattutto alla spesa corrente, piuttosto che al miglioramento infrastrutturale, che pure serve. In questo momento abbiamo il grande bisogno di assunzione di medici e infermieri.

Che investimenti farebbe sulla sanità?

Soprattutto sul lato tecnologico. Ormai la medicina di base, in molti Paesi del mondo, utilizza video visite, chat, strumentazioni che permettono di capire molte cose già in remoto, con un’ efficacia molto forte. Questo però vorrebbe dire spostare la medicina di base dal singolo medico a una medicina di base organizzata in aziende, che hanno massa critica e risorse per mettere in piedi questo tipo di tecnologie. Anche se temo che una discussione su questi temi verrebbe bloccata dalla sindacalizzazione dei medici di medicina generale, che non hanno intenzione di andare in quella direzione. 

Torniamo a parlare di Covid. Ci sono purtroppo persone che negano l’esistenza del virus. Perché mettere in discussione dati oggettivi?

Io dividerei queste persone in due categorie. Coloro che sanno, ma che usano la comunicazione pubblica per spingere chi li ascolta nelle direzioni di loro interesse e nella loro parte politica. E a queste persone non ho da dire nulla. Semplicemente non dicono la verità. Mi interessa invece parlare del secondo gruppo, i negazionisti che credono davvero a quello che dicono, perché con loro bisogna parlare e dialogare. Mi è capitato di parlare con persone che partivano da una posizione negazionista e dopo aver parlato e ragionato con calma, sulla base delle evidenze oggettive, arrivavano a cambiare idea. Bisogna pazientemente parlare e comunicare con questa categoria di persone, rispondere ai loro dubbi, alle loro domande.

L’ultima domanda è sui vaccini. Arriveranno presto? E come andrebbe gestita la distribuzione?

Quando arriveranno non lo so. Ma arriveranno a un certo punto, perché sono tantissimi gruppi che si trovano in una fase avanzata di sviluppo. A quel punto, però, il problema sarà l’inoculazione dei vaccini alla popolazione, che non è per nulla un esercizio banale. Il sistema sanitario dovrà essere capace di fare un esercizio di logistica applicata e riuscire, nel giro di tre mesi circa, a inoculare il vaccino a tutti coloro che lo vorranno. Per riuscirci, occorre ad esempio garantire meccanismi efficienti di prenotazione del vaccino e avere personale sanitario in grado di inocularlo. E per quanto sembri difficile si tratta di una sfida che si può vincere. Ci sarà una corsa al vaccino, prevedibile, e per questo è necessario agire prima. Bisognerebbe essere in grado, quando arriverà, di mandare a casa delle persone un messaggio con data e luogo in cui gli verrà inoculato il vaccino e dire: “Presentati in macchina e sarai vaccinato”. 

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