Ci ho pensato un po’ prima di scrivere questo articolo. Ci ho pensato perché alla fine sono e siamo stati (io e la mia famiglia) fortunati. Molto più fortunati rispetto a tanti altri che hanno pagato un prezzo un po’ più alto.
Però proprio in questo periodo dove tutti siamo più distanti, forse c’è proprio bisogno di raccontare come e cosa ciascuno di noi ha passato con questo Coronavirus. Perché abbiamo bisogno e fame di umanità e di contatti.
Un po’ ci speravamo di riuscire a “scamparla”. Però qui in Lombardia, già dai primi di ottobre, si cominciava a percepire che qualcosa non stava funzionando. Sempre più conoscenti contagiati, e finché sai di non aver avuto contatti con loro il dispiacere è tanto ovviamente, ma pensi sotto sotto “è ancora lontano, per ora non ce l’ho”. Poi il giro di amici comincia a restringersi, sempre di più.
E senti su di te una sensazione di accerchiamento. Senti che la malattia è qui, e comincia la pressione e la vera e propria paura perché senti che sta arrivando vicino a te. Sempre più vicino.
Poi, comincia qualcuno in casa tua, nel mio caso mio padre, ad avere un po’ di febbre. E ormai è tardi. Se sei fortunato puoi provare ad isolare la persona con sintomi, ma non tutte le case lo permettono e purtroppo tu con quella persona ci hai vissuto. Mentre qualcuno peggiora, qualcun altro (mia madre) comincia ad avere altri sintomi.
Fai un attimo mente locale, pensi chi hai incontrato nei giorni appena precedenti ai primi sintomi. Vero, il fatto di dover stare distanziati ha aiutato e aiuta a non propagare il virus, però per quanto possibile ci si stava provando ad avere una vita “normale”, inutile negarlo. Soprattutto per chi vive di relazioni, al lavoro come nella propria attività quotidiana, è tremendamente difficile limitare i contatti al minimo. Ci provi, ma non sempre ci riesci. E alla fine, dopo una settimana dove sono rimasto comunque in casa, con i miei genitori con sintomi, ho iniziato anche io a svilupparli. Ed il cerchio si è stretto definitivamente intorno a me.
Cominci a non sapere che pesci prendere, anche se per mesi sei stato martellato giustamente con tutte le prassi possibili da seguire. Nel frattempo, un tampone privato a mio padre l’avevamo già fatto fare, ma l’esito tardava ad arrivare, perché i numeri erano già troppo grandi per riuscire a gestire il tutto. Ma le condizioni continuavano a peggiorare. E la calma se n’era andata definitivamente.
Weekend. Guardia medica inesistente, una giornata intera al telefono senza avere alcuna risposta. Idem ATS. Zero risposte se non “sentite la Continuità assistenziale”. Che non risponde.
Alla fine ho preso una decisione, nonostante già io avessi sintomi, giusta o sbagliata non lo so, però probabilmente la rifarei. Ho caricato mio padre in macchina, e l’ho portato alla Guardia Medica. Guardia medica che si è rifiutata di vedere mio padre, ma non per motivi comprensibili, ma perché “non ha appuntamento, non la visitiamo”. Come se il virus chiedesse un appuntamento prima di arrivare.
Giro indietro la macchina e lo porto nel posto dove nessuno consiglia di portare un malato di Covid, cioè in ospedale. L’ho scaricato davanti al pronto soccorso (non mi sono nemmeno avvicinato alla porta), è entrato dalle porte a vetri e per 13 giorni non l’ho più visto. Fortunatamente siamo riusciti a fargli arrivare tramite conoscenti e parenti cellulare e vestiti, almeno per resistere i primi giorni e anche per farci sapere l’andamento della sua salute. La febbre non accennava a scendere. E arriva l’esito del tampone tra sabato e domenica notte, mentre si trovava già all’ospedale: Positivo. Risultato della TAC: Polmonite Bilaterale Interstiziale.
Tuttora mio padre in questi giorni racconta solo i dettagli dei primi giorni, nei quali la febbre continuava a non scendere nonostante la terapia, ma l’umore era sempre più a terra, si sentiva dalla voce. Più di sessanta persone, in aumento ogni giorno, tutte in pronto soccorso in attesa. Persone in ambulanza che nemmeno venivano scaricate perché di posto non ce n’era già più.
E mio padre è stato fortunato, ma molti non sono stati così fortunati. Una situazione estrema, in un ospedale della profonda provincia Lombarda. Situazione nella quale c’è da fare un monumento al personale medico che comunque prova e lotta a fare il possibile. Ma l’ossigeno iniziava ad essere poco rispetto al numero di persone presenti.
Nel frattempo, noi a casa, eravamo in una stasi, con la terapia contro il Covid (un mix di antibiotico, cortisone ed eparina) già prescritta e in corso ma con sintomi sempre più evidenti: febbre, dolore alle ossa e un’enorme spossatezza che ha messo ko me e mia madre. E nel frattempo ti rifiuti anche di sentire i numeri del contagio e tutte le conferenze stampa, perché sai che questa volta tra quei numeri ci sei anche tu, e sempre più persone che conosci.
E il primo aspetto, oltre ai sintomi, è proprio quello psicologico, perché questa volta ce l’hai, non si scappa. È entrato in casa e te lo senti addosso.
Siamo stati fortunati, molto fortunati, perché sintomi respiratori non sono arrivati, se non una tosse fastidiosa ma controllabile.
Dopo diversi giorni la situazione di mio padre in ospedale è iniziata a migliorare, e dopo sei giorni in pronto soccorso (sei giorni in pronto soccorso, su una sedia, a contatto con tantissime altre persone nelle stesse condizioni o peggiori) è stato ricoverato, non in terapia intensiva, e senza ossigeno. I medici e gli infermieri fanno di tutto per rendergli la situazione sopportabile, ma come detto da lui “vedi che a curarti vengono delle persone avvolte in un tutone, che sai come si chiamano solo per la scritta con il pennarello che hanno sul camice, vedi solo gli occhi e a fatica”.
Non mi sono mai sentito da solo, le chiamate e i messaggi sono stati tantissimi, da tantissime persone, anche dalle più inaspettate, sia a me che a mia madre che a mio padre, e nel frattempo con il passare dei giorni anche le nostre condizioni sono migliorate.
Ma oltre ai sentimenti positivi, subentra anche la rabbia. Già, la rabbia, perché mentre tu la vivi direttamente c’è chi ha ancora la faccia tosta di negare tutto. O di ripetere qui in Lombardia “rifaremo tutto quanto quello che abbiamo fatto a Marzo”. E sono stati di parola, perché le stesse scelte e non scelte sono state rifatte in modo identico. Identico. E ti incazzi (sì, è il termine giusto senza mezze misure) perché nei conti del pallottoliere del consenso ci sono vite, ci sono ansie e paure di esseri umani. Ci sono le tue ansie e le tue paure.
Siamo stati fortunati, molto fortunati. Adesso mio padre è a casa, finalmente, affaticato con un po’ di ossigeno qualora ci fosse la necessità, ma sta bene, così come mia madre. Lui è negativo e noi a giorni faremo il tampone di controllo per sapere se anche noi ci siamo negativizzati.
È stata l’umanità a tenerci vivi, a tenerci su. Un messaggio, una chiamata, un saluto, un “vi serve qualcosa” che hanno fatto la differenza, per quanto gesti piccoli che in certi momenti sono diventati grandissimi.
È lo starci vicini che ci farà superare il momento più buio, che non ci farà perdere la speranza.
Poi almeno da parte mia arriverà il momento di ricerca delle responsabilità (perché mio padre non l’ha preso “per caso”, anzi…ma non è il momento), ma per ora ho preferito semplicemente raccontare questa storia. Che non ha niente di speciale, perché sicuramente è uguale a quella di tante altre famiglie e sicuramente più leggera di quella di altre ancora, però può essere una speranza, per chi la sta vivendo ora e per chi la vivrà.
Con l’augurio per tutti noi che storie come questa resteranno sempre di più un ricordo e non un qualcosa di quotidiano con cui fare i conti.