Alle ragazze e ai ragazzi va insegnato il rispetto della sfera intima. La propria e quella degli altri
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“LEI ha mandato quei video, se lo poteva aspettare”.
“LEI è entrata in casa di Genovese, se l’è cercata”.
“A me non è mai successo”.

Due fatti di cronaca recenti: quello della maestra d’asilo di Torino, ricattata e licenziata per un video intimo inviato al suo ex e quello dello stupro della 18enne in casa dell’imprenditore Genovese.

Un solo minimo comun denominatore: i commenti colpevolizzanti rivolti alle vittime.

Commenti esternati sia da donne che da uomini, che lasciano trapelare una cultura retrograda e machista, dove la donna è un puro oggetto sessuale ad uso e consumo degli uomini, un oggetto privo della propria individualità.

“Nel momento in cui una donna decide di inviare un video intimo deve aspettarsi che venga condiviso”.

Nel leggere i commenti sui social viene attribuita a lei la responsabilità dell’errore e non a chi condivide foto o video, senza alcun tipo di rispetto, su chat con decine di partecipanti, che a loro volta si sentono autorizzati a scambiare, a commentare, a deridere, a violentare con le parole e con i pensieri.

“La maestra di mio figlio non può fare certe cose”. Questo il commento di uno dei partecipanti alla chat dei genitori degli alunni della maestra, che poi, insieme alla moglie, ha pensato anche di minacciare la vittima.

Come si può non sottolineare invece che in questo caso, così come in molti altri, il responsabile è l’ex partner della donna, con il quale si è condivisa la propria emotività e intimità, ed è lui che dovrebbe ricevere commenti di sdegno, non il contrario?!

Non cambia purtroppo la sintesi dei commenti rivolti anche alla giovane donna vittima di stupro: “Non ci si può lamentare se si entra in casa di un uomo e si viene stuprata per ore”, come se si trattasse di un qualcosa di scontato, “A me non è mai successo”, così in molte hanno scritto sui social.

Donne che decidono di mettersi dall’altro lato della barricata, perché certe cose non le hanno mai fatte, perché non le farebbero.

Ciò le rende migliori, perfettamente centrate nel canone femminile che viene loro culturalmente imposto. Così tutto quello che la vittima ha subito, in entrambi i casi, passa in secondo piano.

È assurdo che la sofferenza inflitta, fisica psicologica e sociale, venga dimenticata dai commentatori.

È la radicalizzazione e la recrudescenza profonda del substrato culturale alla base di un’idea della donna non libera di esprimersi, che afferisce entrambi i sessi, una cultura che va combattuta con un lavoro di sensibilizzazione e di promozione della parità.

La sessualità femminile deve essere libera, l’educazione alla sessualità deve essere l’elemento principale per costruire una nuova società, che rifiuti gli stereotipi che portano a queste esternazioni, che scagionano il carnefice e condannano la vittima.

Il Parlamento ha approvato lo scorso anno la legge che ha istituito il reato di “diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”, ma non basta perché non è un deterrente verso una certa impostazione di pensiero.

Per questo nella Regione Lazio siamo andati oltre, approvando la legge – di cui sono prima firmataria e promotrice – per la prevenzione del reato e il sostegno alle vittime di Revenge Porn.

L’istituzione del reato, con l’introduzione del 612 ter del Codice Penale, è stato un passo fondamentale, ma alle ragazze e ai ragazzi di oggi va insegnato il rispetto e la tutela della propria sfera intima.

Per questo auspico che si legiferi a livello nazionale in materia di prevenzione, educazione e sensibilizzazione alla sessualità e si ampli la disciplina in materia di sostegno alle vittime. Dobbiamo abbattere la cultura dei luoghi comuni, della colpevolizzazione delle vittime, della normalizzazione di certi reati.

Va fatto partendo dalle scuole, dai nostri ragazzi: è lì che si diffonde il virus della violenza e di una cultura che non rispetta l’autodeterminazione della donna, l’affermazione di sé stessa in ogni aspetto della vita.

Dobbiamo fornire loro i giusti anticorpi per non farsi infettare dai pensieri della massa e dei social network, che danno spazio ai commenti più beceri e sessisti. Non basta cristallizzare un reato, occorre cristallizzare una cultura, e bisogna farlo prima di infettare anche le nuove generazioni.

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