“È morto uno di famiglia”. È la frase ricorrente tra le voci raccolte dai Tg per strada a Napoli, dopo che si è saputa la notizia.
Era esattamente questo per noi napoletani Diego Armando Maradona. Uno di noi, un fratello, un cugino, un figlio. Un mito assoluto che ci aveva incredibilmente concesso di specchiarci in lui, e di riconoscerci. Ogni singolo volto, da quelli della collina alle facce segnate dei vicoli, fino alle periferie e oltre.
Quella mattina dell’estate del 1984 resta indimenticabile per chi l’ha vissuta. Non esistevano né i social network né i telefonini eppure la notizia diventa virale, come si usa dire adesso, in un niente.
E quell’aria che nel giro di pochi minuti si riempie di elettricità e di attesa. Io ero appena una ragazzina, ma già appassionata di calcio come e più di un maschio. Ricordo mio padre che viene a svegliarmi per dirmelo, il viso illuminato da un sorriso incredulo, e quella canzone che incredibilmente già risuona per la casa: “Maradona è meglio ‘e Pelè ci hanno fatto ‘o mazz’ tant pe ‘ll ave’!”, e ancora: “Maradona, mo’ ca stai cca’, levancillo ‘o scuorno ‘a faccia a sta città”. Maradona, adesso che stai qua, manda via la vergogna da questa città.
Già in quelle prime ore dunque si andava delineando e formando il significato profondo, il segno chiaro di che cosa, quel semplice acquisto di una squadra di calcio, avrebbe rappresentato per tutti noi.
Qualcosa che è da subito andata ben oltre lo sport e che dal San Paolo è diventato un grido di riscatto, di presenza, di rivincita nei confronti non solo delle squadre, ma di un intero pezzo di Paese più ricco e blasonato.
E chi avrebbe potuto immaginare, da come sono andate poi le cose, quanto profondamente la parabola attraversata dal più grande calciatore di sempre avrebbe davvero coinciso con il destino di un popolo. Con gli alti più vertiginosi di sempre, e i baratri più neri della mezzanotte, come si dice a Napoli. Con quell’eterna sensazione di un personaggio tollerato a fatica dal jet set calcistico – e non solo -, perché è il migliore di tutti però, signora mia, che vergogna i suoi comportamenti. Con quell’empatia verso gli ultimi mai abbandonata, neanche nei momenti più bui. E infine con quell’indole inesorabilmente votata a farsi del male da soli, come una specie di maledizione del sangue.
E così è stato fino alla fine. Fino a un’uscita di scena delle sue, nello stesso giorno in cui quattro anni fa se ne andò Fidel Castro, non a caso un altro dei suoi miti. E alla stessa età, 60 anni, alla quale ci ha lasciati Pino Daniele. Insieme a Massimo Troisi destinati a rappresentare quel pezzo del cuore di Napoli che non vuole saperne di invecchiare.
Un campione mai patinato, che aveva scelto di essere se stesso fino in fondo, fino a pagare per questo i prezzi più alti, a volte auto inflitti è vero, ma spesso imposti da un pezzo di sistema che lo tollerava a fatica.
Per questo oggi colpisce l’agiografia che di lui fanno tutti, ma proprio tutti, su giornali e tv. Dimenticando gli attacchi, i fischi all’Argentina nella finale di Italia ’90, i silenzi su un sistema che sapeva che il doping esisteva e riguardava tutti, ma che accettava supinamente che a essere messo sulla gogna fosse solo lui.
Un’ipocrisia ancora una volta riscattata dai soli che lo hanno amato fino alla fine semplicemente per ciò che era, il calciatore e l’uomo, senza quella distinzione che era diventata una specie di litania. E dunque gli scugnizzi di Napoli scesi per le strade per piangerlo, raccolti davanti al suo murales ai Quartieri spagnoli o al San Paolo – che speriamo davvero prenderà il suo nome -. E gli argentini di tutte le età che si sono raccolti alla Bombonera, il mitico stadio del Boca Juniors, illuminato per lui.
Quel cuore che ieri si è fermato rappresenta per intere generazioni la fine di un’epoca. La rottura improvvisa e inaspettata di un filo che teneva legati alla giovinezza, perché era tutto vero, lui c’era stato. Qualcuno di noi lo aveva persino visto segnare quel gol impossibile dall’area di rigore, contro la Juve . E non aveva mai smesso di far sapere al mondo intero quanto ricambiava l’amore della città che lo aveva adottato, proprio come si fa con un figlio.
Toccherà adesso convincerci che sia successo davvero. E che, come dicevano ancora le voci dei napoletani interpellati per strada, Dieguito non morirà mai. Perché Maradona è morto, lunga vita a Maradona!