Verso i cento anni dalla nascita del Pci, senza memoria storica non c’è futuro
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Il 21 gennaio 2021 saranno cento anni dalla scissione di Livorno e dalla nascita del Partito comunista italiano. È auspicabile che questo anniversario sia occasione, non per celebrazioni retoriche, ma per una rivisitazione ed un ripensamento della storia della sinistra italiana, né apologetica, né denigratoria, nella consapevolezza che senza memoria storica non si costruisce il futuro. La rimozione sarebbe una sciagura, ma allo stesso tempo va evitata la tentazione di piegare la riflessione storica alle esigenze di polemica politica immediata. Occorrono onestà intellettuale e rigore storiografico.

Troppo spesso in passato si è ceduto alla tentazione di abiure superficiali, che non aiutano a comprendere quella trama complessa di passioni, idee, percorsi da cui ciascuno di noi proviene e che sono alla base della nostra vicenda democratica. Il risultato dell’azzeramento del passato è stato l’affermarsi di movimenti politici privi di memoria e fatalmente inclini al populismo.

Le premesse, tuttavia, non sono delle migliori, a leggere l’articolo di Biagio De Giovanni su “Il Riformista” di venerdì 11 dicembre. De Giovanni è stato già protagonista, durante gli anni della svolta occhettiana, di un’operazione storica di rimozione, essendo stato autore di un importante editoriale de l’Unità, in cui invitò il Pci a dimenticare Togliatti . Ritengo, personalmente, che se il gruppo dirigente post-comunista, anziché dimenticare Togliatti, si fosse dedicato ad una rigorosa operazione di verità storica, che ci consentisse in modo più equanime di conoscere limiti e meriti di quell’eredità politica, forse avremmo evitato molti errori e molti problemi nella ricostruzione di una forza progressista di governo, radicata nel Paese. De Giovanni oggi, a distanza di 30 anni, seppure con toni apparentemente rispettosi, ci propone di rimuovere dal “pantheon” della sinistra italiana niente di meno la tradizione storicista, rappresentata da Antonio Labriola, Giovanni Gentile e Benedetto Croce, la cui influenza sul pensiero politico dei fondatori del Pci, Gramsci e Togliatti , avrebbe determinato la mancata evoluzione della sinistra italiana verso la socialdemocrazia e perfino il suo ancoraggio all’Unione Sovietica.

In primo luogo, la tesi di De Giovanni si fonda su una bufala storica. Egli sostiene che la differenza fondamentale tra Germania, dove si affermò la socialdemocrazia, e Italia, dove non si affermò, è che nella prima il marxismo fu introdotto da Bernstein, riformista e gradualista, mentre nella seconda fu introdotto da Antonio Labriola e da Giovanni Gentile (sic!).

Eduard Bernstein è stato sicuramente un pensatore originale, che ha avuto un’influenza importante nel dibattito del movimento operaio, ma non fu lui ad introdurre il marxismo in Germania. Il marxismo in Germania fu introdotto da… Marx, che notoriamente era tedesco, per quanto esiliato a Londra, e da Friedrich Engels, i quali svolsero un ruolo attivo nella nascita della Spd, supportati da August Bebel e Wilhelm Liebknecht, seguaci di Marx, che furono rispettivamente segretario del partito e direttore del Vorwaerts. In particolare, Engels, alla morte dell’amico Karl, svolse un ruolo fondamentale nel divulgare il pensiero marxista in Germania, difendendone l’ortodossia, proprio sulle pagine del Vorwaerts dove pubblicò a puntate l’importante saggio noto come “Anti-Duhring”. Dopo la scomparsa di Engels, avvenuta nel 1895, questo ruolo di divulgatore e custode dell’ortodossia marxista fu svolto da Kark Kautsky, e non da Bernstein , che pure ebbe un ruolo rilevante. Kautsky divenne il direttore della Neue Zeit, rivista teorica della socialdemocrazia tedesca, e fu di fatto il teorico marxista più influente della Seconda Internazionale, autore di testi divulgativi, molto letti, persino più del “Manifesto del partito comunista”, che contribuirono in modo assai rilevante alla popolarizzazione del pensiero marxista. Dunque, non Bernstein introdusse il marxismo in Germania, semmai – tolti i due padri fondatori – Karl Kautsky, il quale, fervente sostenitore in campo scientifico delle teorie darwiniane, interpretava il pensiero di Marx in senso evoluzionista, positivista, ma non era riformista, bensì massimalista, per quanto nel 1918 prenderà le distanze dalla Rivoluzione bolscevica e romperà con Lenin, il quale gli dedicherà un feroce saggio polemico . Con Karl Kautsky, era in corrispondenza e sintonia intellettuale anche Antonio Labriola, che impropriamente De Giovanni associa agli “hegeliani” Gentile e Croce – che ne fu allievo -, ma Labriola aveva in realtà da tempo abbandonato l’hegelismo, approdando alla filosofia di Herbart e successivamente al marxismo.

Ciò detto, anche l’affermazione secondo cui fu Labriola a introdurre il marxismo in Italia, se non è una colossale bufala come quella su Bernstein, va sottoposta ad analisi. Se certamente Labriola fu il primo filosofo italiano che si può definire coerentemente marxista, la sua influenza sul socialismo italiano nella prima metà del Novecento fu abbastanza scarsa, e semmai fu proprio tramite la lettura di Gramsci che fu in seguito rivalutato. Il marxismo pre-gramsciano che si affermò in Italia era, come quello tedesco, positivista e evoluzionista, sia nella componente riformista, che faceva capo alla rivista “Critica Sociale” di Filippo Turati e Anna Kuliscioff – la cui influenza nell’introduzione del marxismo in Italia è stata finora sottovalutata, forse perché donna -, e sia nella componente massimalista, che faceva capo ad un altro Labriola, Arturo – economista, sociologo, allievo di Achille Loria, positivista – e ad Enrico Ferri. A voler essere storicamente rigorosi, non è vero che in Italia non si è mai affermata la socialdemocrazia. Un partito socialdemocratico è sempre esistito, si chiamava Partito socialista, e le sue componenti culturali di fondo non erano molto diverse da quelle della socialdemocrazia tedesca. Labriola fu marginale rispetto ad entrambe queste due correnti principali del socialismo italiano: sia rispetto ai riformisti – con Turati la rottura avvenne sin dall’inizio- e sia rispetto ai massimalisti; peraltro, contribuirono ad isolarlo da entrambe le correnti socialiste le sue equivoche posizioni a favore del colonialismo italiano in Eritrea.

Ma il nucleo, secondo me di fondo, della tesi paradossale di De Giovanni, è che sia stata l’influenza dello storicismo di Labriola, Gentile e Croce ad aver indirizzato il gruppo dirigente del Pci verso un orizzonte antiriformista. Tralascio Gentile, con il quale si potrebbero citare molte occasioni di polemica da parte di Gramsci e Togliatti, sin dai tempi de “L’Ordine Nuovo” .

Ma davvero è così come scrive De Giovanni, ossia è lo storicismo crociano ad aver influito su Gramsci e Togliatti nel senso di una visione finalistica e provvidenziale della storia?

Anche qui siamo ad una grossolana semplificazione. Croce era tutto tranne che un sostenitore delle tesi rivoluzionarie, e nel suo breve periodo di inclinazione verso il marxismo fu molto influenzato proprio da Bernstein. Da Bernstein riprese l’idea che il socialismo è “movimento, non fine”, qualcosa che può essere costruito, non qualcosa che deve necessariamente realizzarsi. Da Bernstein riprese la critica della teoria economica marxiana, che fece sua e mantenne anche quando abbandonò ogni legame con il socialismo. Ma quando Croce approda all’idealismo, in polemica con l’economicismo marxista, egli non si limita ad adottare la filosofia hegeliana, ma la innova, rifiutandone il misticismo logico, e la riforma nel senso di uno storicismo integrale, di stampo vichiano, che escludeva ogni esito prestabilito, attribuendo un ruolo fondamentale all’agire umano storicamente concreto: la libertà umana diventa così forza motrice della storia. Non a caso Croce definiva la sua filosofia come “religione della libertà”. Ma la via degli esseri umani verso la libertà non era un approdo finale certo, bensì un cammino a ostacoli in cui procedere, per dirla con Vico, “per prove ed errori”. Croce fu dunque protagonista in Italia, insieme con altre figure rilevanti, come Giuseppe Prezzolini, Gaetano Salvemini e per alcuni aspetti lo stesso Gentile, di una riforma laica della cultura italiana, che rifiutava ogni forma di misticismo metafisico e di provvidenzialismo, sia nei confronti del pensiero cattolico e sia anche nei confronti della fede millenaristica del socialismo italiano, intriso di positivismo e di determinismo meccanicistico.

Dunque, se un merito va attribuito all’influenza crociana sul gruppo dirigente comunista è di averlo aiutato a liberarsi dal massimalismo socialista – ed anche dal minimalismo turatiano, che come il massimalismo si fondava sull’illusione che “il sol dell’avvenire” sarebbe sorto comunque ed in modo inesorabile -, dall’idea che esistesse una meta finale della storia, e ad avere una visione laica dei processi storici. Per tale ragione, il gruppo dirigente del Pci non poteva che guardare con grande diffidenza alle rozzezze del materialismo dialettico di stampo sovietico, e lo fa sin dalle note gramsciane dal carcere. E del resto l’influenza del liberalismo crociano è stata fondamentale non solo per la formazione culturale del gruppo fondatore del più grande partito comunista d’Occidente, ma anche per quella degli intellettuali che diedero vita al liberalismo azionista e al liberalsocialismo italiani, a partire da Piero Gobetti e Guido Calogero. Quindi, non è certo da attribuire a Croce la responsabilità della presunta mancata evoluzione del Pci ed in generale della sinistra italiana verso la socialdemocrazia europea, semmai al contrario molto ha contribuito al fatto che il Pci abbia sempre saputo combattere nella sua storia le derive settarie e massimaliste e si proponesse come erede del Risorgimento liberale . Così come a Croce, alla sua distinzione tra liberalismo e liberismo economico, dobbiamo la nascita della tradizione di origine tutta italiana del socialismo liberale, che tanto ha influenzato anche il socialismo europeo negli ultimi decenni del Novecento, nonché teorici fondamentali del liberalismo contemporaneo come John Rawls e Amartya Sen. Affermando il contrario, non vorrei che De Giovanni dopo averci suggerito 30 anni fa di fare a meno di Togliatti, voglia infine suggerirci di dimenticare anche Benedetto Croce. Sarebbe un’autentica iattura, a fronte del fatto che invece il suo liberalismo ed il suo storicismo integrale, che tornano ad essere letti e studiati anche in ambito anglosassone, possono essere uno strumento molto utile come guida nella globalizzazione in cui siamo immersi, per comprendere che non ci sono “conflitti di civiltà” irrisolvibili; non è vero che esistono culture a cui è preclusa la possibilità di sviluppare forme di convivenza orientate all’affermazione della libertà, poiché ogni cultura è una costruzione storica che cambia nel tempo, attraverso l’agire concreto degli esseri umani.

Lo storicismo italiano, che forse dovremmo cominciare a riscoprire anche in Italia, ha dunque molto da dire sui tempi che viviamo, rispetto ad altri razionalismi, che immaginano invece l’esistenza umana come un risultato deterministico dei fattori socioeconomici, culturali e persino etnici di partenza.
Infine, ma davvero si può affermare, seppure provocatoriamente, che a fondare il Pci furono Labriola, Croce, Gentile? È una doppia semplificazione quella che opera De Giovanni. Prima riduce Gentile e Croce a Labriola, ed invece erano tre intellettuali molto diversi tra loro; poi riduce Gramsci a Croce, Gentile e Labriola. Ma Gramsci fu molto di più, non solo lo storicismo, nel cui solco senz’altro egli si colloca, ma è Bergson, Sorel, l’empiriomonismo di Bogdanov , anticipatore della cibernetica, è il concretismo di Salvemini, è il pragmatismo … Gramsci fu tutto tranne che un pensatore provinciale, e nella sintesi originale del suo pensiero confluirono le principali correnti culturali della sua epoca, europee e mondiali. Per tale motivo, oggi è l’intellettuale italiano più studiato al mondo e ridurlo ad un epigono di Labriola, Croce e Gentile è davvero un’operazione culturale superficiale e provinciale.
Dunque, il centenario della storia del Pci sia occasione davvero per riscoprire la storia della sinistra italiana nelle sue radici profonde, senza abiure, senza revisionismi rabberciati, senza provincialismi e senza dimenticare ma anzi riscoprendo sia Benedetto Croce e sia Antonio Gramsci, due grandi pensatori di dimensione europea e mondiale, che ad una forza progressista del XXI secolo sono davvero utili, per capire molti aspetti del tempo presente e per guidarci verso il futuro.

p.s. Biagio De Giovanni annuncia, in conclusione del suo articolo, una seconda “puntata” sulla democrazia progressiva, idea che fu alla base del contributo della sinistra italiana non solo comunista alla Costituzione italiana. Prepariamoci.


Andrea Catena è responsabile del centro studi “per la Rinascita” del Pd abruzzese, ha contribuito alla realizzazione del libro “1921. Resoconto di una scissione” di cui è curatore Pierluigi Regoli, con contributi di Valdo Spini, Graziella Falconi, Nicola Zingaretti.

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1 COMMENTO

  1. L’ errore del 91 fu quello di buttare via in blocco la storia, le conquiste, gli errori ed i protagonisti di 70 anni.
    Senza un’ analisi politica e storica, approfondita e partecipata nella societa’, si decise di mettere in soffitta un’ esperienza che aveva coinvolto milioni di persone e fornito un enorme contributo alla rinascita del Paese.
    Non si comprese che cosi’ facendo si indeboliva non solo la rappresentanza politica di specifici settori della societa’, ma si minava un pilastro dell’impalcatura costituzionale, fondata anche sul contributo delle forze socialiste alla Costituzione ed al patto fondativo della Repubblica.
    Da cio’ deriva il fatto che da 30 anni si parla solo di imprese e non anche di lavoratori e di lavoro, da cio’ nasce l’attacco costante al welfare, l’indebolimento della sanita’ e della scuola pubbliche, intese come strumento di tutela e di emancipazione degli strati piu’ fragili della popolazione.
    Si acquisirono modelli socialdemicratici d’ importazione, peraltro non ben compresi e gia’ messi in crisi di loro a causa della caduta del muro, invece che trarre le parti ancora valide e vitali di un’esperienza che aveva, nel bene e nel male, dato voce e rappresentanza a milioni di cittadini ed istanze in precedenza escluse dalla partecipazione democratica.
    Il Pd di oggi dovrebbe rifletterci.
    Non per rifondare il Pci certamente, ma per prenderne ad esempio il senso di comunita’ di gruppi dirigenti, quadri e militanti, la serieta’ e l’approfondimento dell’analisi politica, il legame con la societa’ e le sue articolazioni, lo stimolo alla partecipazione democratica attiva ed all’ adesione alle Istituzioni Repubblicane.
    Basterebbe smettere solo di fare correnti e correntine ed spostare lo sguardo un po’ oltre ed un po’ piu’ in alto!

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