“Sono una diversamente mamma: sono le sue gambe, le sue braccia, il suo pensiero” La storia di Irene e Claudia
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“Se solo riuscisse a dirmi cosa pensa, se sta bene, se riesce a sentire il nostro amore, sarei felice. Ecco sarebbe il mio regalo di Natale. Ma so che non succederà mai. Vado avanti, gestisco la mia quotidiana anormalità con grande pragmatismo e non mi aspetto miracoli”.

Così Anna Claudia Cartoni, romana, 58 anni, insegnante di ginnastica artistica, oggi con un part time negli uffici del Coni, racconta quella che è diventata la sua vita negli ultimi sedici anni, da quando è nata Irene, sua figlia, affetta da una malattia rara, a cui un arresto cardiocircolatorio ha dato il colpo di grazia.

“Da sedici anni – ci spiega – sono una diversamente mamma, sono le sue gambe, le sue braccia, il suo pensiero. Sono la mamma di una bambina eternamente piccola con un corpo che la farà diventare adolescente e poi donna.  Aggiungo che il mondo dell’handicap non è fatto di solo dolore, richiama valori umani e profondi. E’ una realtà fatta di emozioni forti, rabbia, sensi di colpa e impotenza, frustrazioni, che si alternano in un’incessante altalena. E’ un mondo in cui esistono spazi, seppure rari di gioia, benessere, perché il dolore da solo non uccide”.

Sul suo rapporto con Irene e suo marito Fernando – che forse ha accettato più serenamente sua figlia,anche se cerca di stare lontano dalla sofferenza -Anna Claudia ha scritto un bellissimo libro,pubblicato di recente e intitolato Irene sta carina- una vita a metà, con la prefazione di Simonetta Agnello Hornby (Harpo Editore). In tutto centosettanta pagine che raccontano con lucidità e profondità una vita sconquassata dalla malattia, dai primi anni in terapia intensiva, da continue interventi chirurgici, ma forse di più da un mondo che corre, spesso indifferente, se non cinico nei confronti di chi è troppo lento.

“Avevo iniziato scrivendo un diario – ci dice Anna Claudia – pensando di poter aiutare Irene, una volta adolescente e consapevole, a comprendere il perché delle cicatrici sul suo corpo e le scelte fatte da noi genitori. Avevo paura che a distanza di anni quei ricordi e quelle emozioni svanissero. Ma dopo i danni neurologici riportati ho smesso, consapevole che non sarebbe mai stata in grado di leggere. Irene non può parlare, non può camminare, alza a mala pena le sue manine. E così io posso solo interpretare i suoi gesti minimi, supporre che stia più o meno bene quando il suo corpo si rilassa e pensare che abbia dolore quando la vedo più contratta. Ho allenato i miei occhi a cogliere il più invisibile dei suoi messaggi. Mi piace pensare che il suo sguardo si fa più luminoso – e succede, per esempio, quando il suo papà le suona alla chitarra la sua musica preferita o quando vede un bambino– perché sia realmente felice. Ma, ripeto, niente di certo. Posso solo immaginarlo”. Da quel diario poi è nata l’idea del libro, con la speranza che le sue pagine aiutino tante famiglie a sostenere, oltre al peso della disabilità, quello di un mondo non ancora a misura di chi è diverso. 

Tante le difficoltà che ogni giorno Irene, Anna Claudia e Fernando incontrano: burocratiche, strutturali e, soprattutto, sociali, – perché – fa sapere Anna Claudia – l’accoglienza e il rispetto sono concetti molto rari. 

Qualche esempio. “E’ stato molto difficile far capire agli uffici che gestiscono il personale infermieristico quanto fosse importante per noi e, soprattutto per Irene, avere poche figure di riferimento e non cambiarle in continuazione.  Ho lottato tenacemente perché ci fosse fornito un servizio di assistenza composto da poche persone preparate e di nostro gradimento. Uno scontro duro, poi, l’ho avuto con la Asl, quando anni fa chiesi di uscire di casa con l’infermiera al seguito. L’assistenza domiciliare si doveva svolgere secondo loro solo all’interno delle mura domestiche. Non potevamo concederci brevi passeggiate perché secondo loro, se Irene poteva permettersi di uscire e frequentare la scuola, significava che stava bene e non aveva bisogno di assistenza.  Con il passare del tempo hanno per fortuna riconosciuto le mie ragioni. Anche su alcuni ospedali avrei tanto da criticare. Dopo due anni in terapia intensiva, un po’ di esperienza l’ho accumulata. E, per esempio, posso dire che ogni medico svolge il suo lavoro nella parte in cui è specializzato, ma nessuno guarda questi bambini nel loro insieme. Pazienti come Irene che hanno molte patologie in un corpo solo, sono destinati a peregrinare tra reparti diversi e noi genitori siamo chiamati, ogni volta a raccontare da principio la loro storia. Penso che non sempre l’ospedale persegua davvero l’interesse del paziente. Nella sua organizzazione sono messi in primo piano interessi di altro tipo. Ci siamo ritrovati a fare indagini non determinanti e non richieste solo per giustificare l’organizzazione di un day hospital, poiché per fare solo un giorno, si devono eseguire per forza più prestazioni. Non solo. E’ necessario organizzare un ricovero di più giorni anche solo per essere sottoposti a un’indagine breve e poco invasiva”.

Prima che nascesse Irene, Anna Claudia e Fernando avevano scelto una stanza dai colori forti, l’avevano riempita di giocattoli per la loro bambina. Quando dopo due anni in ospedale sono tornati a casa hanno dovuto cambiare tutto. Irene ha bisogno di tinte leggere e pochi soprammobili, sistemati in modo ordinato, per essere riconosciuti.

“La casa – aggiunge Anna Claudia – ha smesso di essere il mio rifugio dove rilassarmi, perché dove c’è Irene  c’è necessità di una costante presenza e attenzione: questo è il suo unico modo per vivere. E’ vero, infermiere, assistenti mi aiutano molto, ma anche per questo è difficile trovare uno spazio di solitudine dentro casa. Purtroppo, riesco a staccare la spina solo lontano da Irene e questo mi dispiace enormemente. Quando si può, io e Fernando torniamo in montagna. E’ lì che ci ricarichiamo – anche se abbiamo sacrificato la nostra intimità- ma il pensiero è sempre fisso su di lei.  Ogni tanto, sì, scappo e con gli anni ho imparato a non sentirmi in colpa per questo. Le piccole fughe giornaliere sono la mia linfa vitale per cercare di essere sempre una mamma energica e sorridente. Non ho mai voluto fare psicoterapia, non ho una fede potente, mi aiuta il mio pragmatismo. I sensi di colpa mi divorano, certo, ma solo quando mi sento inadeguata, quando so che potrei fare di più, ma non ce la faccio. Forse mi devo rassegnare che la sua vita implica anche noia e solitudine, ma se sono io la prima a farle provare la solitudine, che cosa mi posso aspettare dal mondo intero? Ecco, quello che mi terrorizza è il dopo di noi. Le risorse economiche possono essere sufficienti, mami chiedo: Le strutture ci sono? Il personale èpreparato? Quante volte sentiamo che in alcunestrutture i disabili vengono maltrattati? Se lei misopravviverà, qualcun altro dovrà prenderle la mano,metterle il pannolone. Ma chi? L’angoscia mi travolgee non trovo dentro di me alcuna soluzione per unfuturo di Irene senza di noi. Poi il suo sorriso, la lucedei suoi occhi spazzano le ombre e mi dico che allamia piccola Iron, che a pochi mesi tutti i medicidavano per spacciata, qualcosa accadrà”.

Invidia per altri bambini e altre mamme? “E’ un sentimento che non conosco – replica- anche se spesso mi chiedo: perché tutto sulla pelle di mia figlia? Non ho mai pensato ai miracoli. Oggi so che non posso aspettarmi da lei attenzioni, carezze, non posso immaginarla invecchiata. Eppure Irene è la mia gioia infinita ed è lei la mia maestra di vita. Con Irene ho imparato il valore della lentezza, un lusso in un mondo in cui tutti sembriamo costretti a correre. Rallentando il ritmo della vita posso percepire sensazioni che prima attraversavo di fretta, mi soffermo molto di più sulle cose e sto più agevolmente nel momento presente.  Irene mi ha insegnato a non dare nulla per scontato, Irene fa diventare semplici le cose più complesse e viceversa. Per Irene le funzioni più automatiche della vita, come respirare o deglutire, possono diventare di una difficoltà infinita e quando la vedo concentrarsi per coordinare bene queste azioni penso a quanta fatica debba fare per vivere, ma lei non si fa domande e con impegno va avanti. Quanto a me, forse sono diventata più cinica rispetto al dolore, ma sono sicura di essere più forte e saper mantenere la lucidità anche nei momenti più difficili che ancora dovremo affrontare, considerata la nostra età che avanza. Il dolore che provo è come una pugnalata fissa dentro il cuore e non si spegne mai, ma ho imparato a prendere confidenza con esso e a trasformarlo in forza. A volte improvvisamente il dolore arriva con una violenza infinita. Non c’è un perché: magari bastano le parole di una canzone o il sorriso di un neonato. In quel momento devo corazzarmi il più velocemente possibile per non soccombere. Quando vedo Irene da sola sulla sua carrozzina e tutto il resto del mondo distante, mi viene da piangere e sciolgo questa mia angoscia sperando che Irene non si renda conto di tutto questo e non viva la sua situazione come la percepisco io. Irene non ha il ricordo di un paradiso perduto perché è sempre stata così”.

La molla per andare avanti? “Mi sono concessa – confessa- anche i momenti di debolezza, ho fatto scorrere il tempo passivamente, sono stata vicino a Irene e forse avere questo scopo nella vita mi ha aiutato a non crollare perché sapevo che c’era chi aveva bisogno di me. Dopo i primi anni tostissimi in ospedale e il crollo di ogni illusione, quando dai pannolini sono passata a metterle i pannoloni, non si sa come, ho attinto ad una forza magica insita probabilmente nella parola vita”.

Per questo Natale e il futuro? “Voglio che Irene stia carina, come diceva un medico in ospedale – risponde – Capire e farsi capire da lei è una impresa difficile. Spesso siamo in silenzio ognuna assorta nei propri pensieri. In quei momenti non mi sento sola perché lei è con me e spero sia la stessa cosa per lei. Beh, desidero che a Natale e per tanti anni ancora io possa sentire la partecipazione di Irene in modo diverso, magari solo attraverso il semplice contatto fisico o solo grazie alla mia sola voce. Vorrei che in futuro anche la scuola si dotasse di insegnanti non solo empatici, ma anche preparati al sostegno di patologie che sono tante e diverse”.

Tanti sono spaventati dalla normalità, che è sinonimo di routine. E cercano disperatamente una vita spericolata alla Vasco Rossi. “Anche io – conclude – da ragazza ne avrei voluta una così. Poi ne ho avuta una tanto diversa da quella della maggior parte delle persone, che è diventata normale. Anzi, è proprio l’aver cercato la quotidianità nell’anomalia che mi ha salvata. Come diceva il Dr Seuss, ne IL guardiano della foresta? E’ bello vedere qualcuno che non si fa scoraggiare da cose come la realtà”.


Cinzia Ficco è una blogger. Questa intervista è apparsa anche sul suo sito Tipi Tosti

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