Lo sfruttamento del lavoro e dell’ambiente sono espressioni comuni di un sistema che fagocita diritti e futuro. Non è un fenomeno marginale, periferico o occasionale. In questa Italia ci sono, stando al rapporto Agromafie e caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil (2020), tra 400.000 e 450.000 lavoratori e lavoratrici che solo in agricoltura risultano esposti allo sfruttamento e al caporalato, di cui più di 180.000 impiegati in condizione di grave vulnerabilità sociale e forte sofferenza occupazionale.
Secondo il sesto rapporto Agromafia dell’Eurispes, il business delle agromafie, che comprendono le forme di grave sfruttamento, vale 24,5 miliardi di euro l’anno, con un balzo, nel corso del 2018, del 12,4%. Cifre che mettono i brividi. Un fiume di denaro che deforma la democrazia, espressione di rapporti di forza che sviluppano interessi criminali, anche mafiosi, prassi, linguaggi verbali e non verbali, comportamenti orientati a tutelare le dinamiche del potere dominante e del suo network, a discapito del diritto, fino a legittimare l’esistenza di una galassia di uomini e donne considerati accessori, utili solo alla produzione, non cittadini e dunque non titolare degli stessi diritti degli italiani. Questa è l’espressione di un’ideologia della disuguaglianza penetrata nei processi culturali delle società occidentali e troppo spesso relazione fondamentale del mondo del lavoro, in particolare del lavoro di fatica.
La stessa pandemia da Covid-19 ha drammaticamente amplificato strutturali disuguaglianze sociali ed economiche che hanno reso più estreme le condizioni di vita e di lavoro di migliaia di persone. Secondo Tempi Moderni, ad esempio, durante l’emergenza Covid si è registrato un aumento del 15-20% di stranieri sfruttati nelle campagne italiane (40-45 mila persone), con un peggioramento delle loro condizioni lavorative, un incremento dell’orario di lavoro (oscillato tra 8 e 15 ore giornaliere) e del numero (20%) di ore lavorate e non registrate, a cui associare un peggioramento della retribuzione (-15%). Si è aggiunto, inoltre, l’aumento esponenziale dell’arrendevolezza dovuto al clima emergenziale che ha spinto molti immigrati sfruttati a considerare se stessi come secondari rispetto ai destini degli italiani e quindi a rinunciare ad ogni rivendicazione.
Nomi, storie, aspirazioni, testimonianze di un sistema che produce lo schiavismo in una forma contemporanea. Uomini e donne a cui viene violata la dignità ogni giorno, costretti ad eseguire gli ordini del padrone, a sottostare ai suoi interessi e logiche di dominio. Harbhajan Ghuman, indiano da quasi venti anni in provincia di Latina, combatte da sempre lo sfruttamento e il caporalato dei suoi connazionali, non ha dubbi: “Siamo tutti uguali ma ci sono padroni che sfruttato e rendono schiavi altri uomini. Questi ultimi spesso sono indiani. Ne ho conosciute a centinaia in questi anni. Vivono in stalle abbandonate, lavorano a volte anche 14 ore al giorno per quasi tutti i giorni del mese. Prendono 500 o 600 euro al mese ed è vietato loro ribellarsi altrimenti il padrone li invita a cercarsi un altro lavoro ma questo è impossibile. Ho soccorso, insieme al centro studi Tempi Moderni, molti ragazzi che sono stati picchiati dai padroni o dai caporali perché chiedevano almeno un mese di retribuzione a fronte dei 4 o 5 lavorati senza prendere un euro. Non possiamo andare avanti così. Il problema riguarda anche la comunità indiana. I caporali sono spesso indiani, alcuni capi della comunità sono diventati boss, gestiscono lavoratori come i caporali, li piazzano dai padroni, hanno tradito lo spirito di un impegno che ci ha consentito in questi ultimi cinque anni di portare quasi diecimila lavoratori in piazza. Ci sono mediatori, caporali e trafficanti che sono come i padroni, ossia vigliacchi e sempre alla ricerca di soldi e di potere”. Parole chiare.
Quando questo potere si esercita nei confronti delle donne, lo sfruttamento assume caratteri devastanti. Ci sono infatti anche alcuni casi di violenza sessuale, di subordinazione dei corpi delle lavoratrici immigrate alle logiche di dominio del boss, del padrone, del capo di turno. Donne che a volte sono costrette ad abortire, a restare in silenzio, a dire “signor si”. L’avvento di rinnovate forme di lavoro schiavistico rappresenta una delle evoluzioni sociali più significative degli ultimi decenni e, nel contempo, una delle sue rimozioni più gravi. Una schiavitù che viene veicolata e sostenuta da tesi, linguaggi e comportamenti razzisti e classisti che una destra xenofoba, anche quando è al governo, ha incentivato, cercato di legittimarla sul piano normativo, verbale e politico.
Oggi la legge contro lo sfruttamento (l. 199/2016) è di fondamentale importanza ma si deve continuare ad indagare e comprendere le evoluzioni di questo modello produttivo e sociale. Le storie di vita degli sfruttati nelle campagne italiane rimandano, infatti, ad un sistema padronale fondato sulla subordinazione di tanti a vantaggio di pochi. Si lavorava anche quattordici ore al giorno per 28 o 30 giorni al mese. Si sta in ginocchio per ore per raccogliere, con accanto il caporale o il padrone, gli ortaggi coltivati in serra o in campo aperto. E se capita un incidente, si deve restare in silenzio. Il vincolo omertoso è, a volte, condizione per la propria sopravvivenza. Al massimo si viene portati dinnanzi ad un pronto soccorso e lì abbandonati con l’obbligo di non riferire al medico di turno come e dove ci si è infortunati. Nei referti medici degli ospedali del foggiano, rosarnese, di Vittoria, della bellissima Basilicata, dell’Agro Pontino, cuneese, delle campagne venete, lombarde o emiliane, molti lavoratori e lavoratrici impiegati in agricoltura si presentano con ecchimosi, gravi irritazioni agli occhi o alla pelle, ematomi e ossa rotte ma denunciano quasi sempre incidenti domestici, litigi coi propri connazionali o incidenti con la bicicletta. Un tentativo di nascondere le responsabilità del padrone o del caporale, considerati i referenti del lavoro possibile, che resta quello sfruttato, in cui il diritto è un privilegio per pochi e il dovere di obbedire e tacere invece la regola generale.
Oltre a questo si devono ricordare gli effetti nocivi della chimica, spesso illegale, che viene diffusa nei campi mediante vaporizzatori o dentro le serre con il solo scopo di arricchire la produzione e il portafogli degli imprenditori criminali. A Latina se ne fa un gran uso e proprio a dicembre un’importante operazione della Polizia e dei Nas ha permesso di scoprire tali sostanza nocive perché cancerogene negli armadi di un padrone italiano che insieme a questa pratica sfruttava indiani e bangladesi pagandoli appena 3 euro l’ora per 10 o 12 ore di lavoro al giorno. Un padron che girava in Ferrari e spesso con una pistola che usava per minacciare chiunque si parasse dinnanzi a lui. Un padrone che è espressione di una imprenditoria criminale che viole le regole del mercato e sfrutta il lavoro anche degli imprenditori onesti che cercano di produrre qualità e quantità nel rispetto delle norme e dei vincoli ambientali sovraordinati.
Il padrone è capace, nel concreto manifestarsi del suo assolutismo, di dominare l’intera esistenza dello schiavo. In provincia di Latina e precisamente a Sabaudia, appena poco prima di Natale, un’operazione denominata “Schiavo” e condotta dalla Guardia di Finanza ha permesso di liberare dallo sfruttamento 290 lavoratori, soprattutto di origine indiana, che da anni venivano retribuiti con salari mensili inferiori anche del 60% rispetto a quelli previsti dal contratto provinciale, senza il riconoscimento degli straordinari, con l’obbligo di lavorare anche la domenica, impiegati senza le necessarie misure di sicurezza. E sempre in provincia di Latina, ossia ad appena cento chilometri dalla Capitale, il 06 giugno scorso un ragazzo di nome Joban Singh di appena 25 anni è stato trovato senza vita all’interno del suo appartamento nel noto residence Bella Farnia Mare, ancora nel Comune di Sabaudia. Joban Singh ha deciso di impiccarsi dopo essere entrato in Italia mediante un trafficante di esseri umani indiano, essere stato gravemente sfruttato in una delle maggiori aziende agricole dell’Agro Pontino e aver subito il rifiuto da parte del padrone alla sua richiesta di emersione dall’irregolarità mediante art. 103 del Decreto Rilancio (D.L. n. 34/2020) del governo. Si tratta del quattordicesimo caso di un lavoratore indiano che si è suicidato in provincia di Latina a causa della combinazione perversa di sfruttamento, caporalato, truffe e tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo.
E proprio Dignità–Joban Singh si chiama il progetto di Tempi Moderni che prevede l’avvio di una serie di sportelli legali, di assistenza sociale e formazione, organizzati con l’ausilio dell’associazione Progetto Diritti in tutto il territorio nazionale a partire dalla provincia di Latina. Si tratta di sportelli aventi il compito di fornire assistenza legale gratuita alle donne e agli uomini gravemente sfruttati, vittime di tratta e caporalato, di violenze, anche sessuali, obbligati al silenzio o alla subordinazione. Insomma, un progetto realizzato grazie all’ausilio di avvocati di grande esperienza e con mediatori culturali affidabili e professionali, fondato sulla pedagogia degli oppressi di Freire e gli insegnamenti di Don Milani, Don Primo Mazzolari e Don Sardelli. Un progetto che vuole anche contrastare le strategie (razziste) mediatiche, politiche e sociali di stigmatizzazione, stereotipizzazione ed esclusione di coloro che sono considerati antropologicamente diversi.
Marco Omizzolo è un Sociologo di Eurispes e Presidente della coop. In Migrazione e di Tempi Moderni
Da sempre (troppi anni) leggo dello sfruttamento dei lavoratori nell’agricoltura. Raramente trovo notizie riguardanti l’arresto dei responsabili, la confisca dei beni, la refusione dei danni alle vittime.