“Un malato di mente entra nel manicomio come una persona, per diventare una cosa. Il malato, prima di tutto, è una persona, e come tale deve essere considerato e curato (…). Noi siamo qui per dimenticare di essere psichiatri e per ricordare di essere persone”.
Franco Basaglia è stato uno dei più noti psichiatri moderni, le cui idee innovative sancirono la fine della vecchia concezione di psichiatria e, soprattutto, del vecchio concetto di cura psichiatrica.
A lui si deve la Legge 180, che porta il suo nome, che trasformò il vecchio ordinamento degli ospedali psichiatrici italiani, promuovendo un nuovo trattamento e cura dei disturbi mentali e, soprattutto, sostenendo il rispetto della persona umana. È il 1978, l’anno della morte di Aldo Moro e di Peppino Impastato, ma anche l’anno di grandi passi avanti sul fronte dei diritti civili e sociali: l’approvazione della legge 833 che istituisce il Servizio Sanitario nazionale, la legge 194 per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza e, infine, la 180 che il 13 maggio di quell’anno entra in vigore, seppure con i suoi tempi di applicazione, che si sono prolungati fino al 2000, anno della chiusura dell’ultimo manicomio del nostro paese.
Nato a Venezia l’11 marzo del 1924, nel 1949 si laurea in medicina presso l’Università di Padova; proprio a Padova nel 1953 si specializzò in malattie nervose e mentali presso la clinica neuropsichiatrica della facoltà di medicina. Nello stesso anno sposa Franca Ongaro, che lo affiancherà nel suo lavoro.
Nel 1958 ottiene la libera docenza in psichiatria mentre prestava la sua attività lavorativa a Padova, dove era assistente presso la Clinica di malattie nervose e mentali. Prorettore dell’ateneo padovano era all’epoca Massimo Crepet, pioniere della medicina del lavoro ed amico personale di Basaglia.
Basaglia lascerà l’insegnamento nel 1961, dopo le numerose manifestazioni di ostilità a causa delle sue idee considerate troppo progressiste, trasferendosi a Gorizia, dove era stato nominato direttore dell’ospedale psichiatrico. L’impatto con la realtà del manicomio fu durissimo: cancelli, inferriate, porte e finestre sempre chiuse; dove le terapie più comuni erano la segregazione nei letti di contenzione, la camicia di forza, l’elettroshock, la lobotomia. I pazienti non erano considerati persone in difficoltà e bisognose di aiuto, ma non-persone da controllare, reprimere e sedare.
‘Isolato, segregato, reso inoffensivo dalle mura che lo rinchiudono – scrive Basaglia – il ricoverato pare assumere un valore al di là di quello umano, fra un animale docile ed inoffensivo ed una bestia pericolosa, sempre finché si consideri la malattia come un male irreparabile contro cui non c’è niente da fare se non difendersene’.
È con i 650 pazienti dell’istituto, che Basaglia inizia la sua rivoluzione: abbattendo gli ostacoli tra loro e il mondo al di là dei cancelli, li mette nella condizione di essere liberi di passeggiare nel parco, o di consumare i pasti all’aperto.
Per i pazienti non dovevano esserci più solo terapie farmacologiche, ma anche rapporti umani rinnovati con il personale della ‘comunità terapeutica’. Dovevano essere trattati come persone, persone ‘in crisi’, certo: una crisi esistenziale, sociale, familiare, che però non era più ‘malattia’ o ‘diversità’.
Nel 1968 esce il libro L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, che ha sull’opinione pubblica un impatto straordinario. Testo potente che deve, come spiega Franca Ongaro Basaglia nella nota introduttiva, la sua forza innovativa in un “no” categorico verso le prerogative mediche, sociali e politiche che l’istituzione manicomiale ha fino a quel momento soddisfatto: no al mandato sociale della psichiatria che tratta il malato come un non-uomo, disumanizzandolo e mortificandolo; no alla codificazione dei ruoli: il malato come irrecuperabile e il medico come carceriere; no alla priorità della malattia sul malato.
Nico Casagrande, medico che dal 1965 al 1969 è stato assistente di Basaglia a Gorizia, in una intervista ricorda che: “quello che andavamo proponendo si sposava con lo spirito del tempo. Perché Gorizia nasce negli anni 60, perché negli anni 60 c’è una modifica totale della società italiana che passa da un mondo agricolo ad un mondo industriale e non si può più permettere di avere manicomi. Basaglia diventa l’interprete di quel momento. E’ uomo del suo tempo, non fuori dal tempo e lo interpreta perfettamente”.
“Ricordo – prosegue – che quando è stato abbattuto il primo muro di cinta dell’ospedale psichiatrico i pazienti non osavano andare oltre. Fino al momento in cui, rendendosi conto che andando oltre quel muro non succedeva niente di pericoloso, iniziavano ad andare. Abbattere il muro aveva anche un profondo valore simbolico, la riconquista del proprio spazio e di molte altre cose”.
La libertà, sosteneva Basaglia, è sempre terapeutica; e Gorizia, che vive il suo muro costruito nel 1947 sul confine italo iugoslavo, e smantellato a partire dal 2004 a seguito dell’entrata della Slovenia nell’unione europea, ne diventa patria perfetta.
Franco Basaglia muore a Venezia nel 1980, all’età di 56 anni, a causa di una neoplasia al cervello. Dopo la sua scomparsa è stato sepolto nel cimitero di San Michele, sull’isola omonima della laguna di Venezia.