Il PD chiuda la stagione del plebiscito per ripartire davvero

Il meccanismo distruttivo che ha colpito senza differenza alcuna tutti i segretari del Partito Democratico, pur con profili e piattaforme politiche profondamente diverse, deve far riflettere sulla struttura stessa del PD e sui suoi limiti. Il difetto sta nel manico. E se non lo si rivede dalle radici è inevitabile che si protragga all’infinito facendo danni di portata maggiore ad ogni passaggio.

Ciò che sconvolge e lascia attonita la base, i tanti che ogni giorno con generosità si spendono sui territori per i valori di cui il PD è portatore, è l’incapacità di fare sintesi da parte dei gruppi dirigenti e la conflittualità esterna e violenta che ha prodotto scissioni, spaccature, abbandoni anche delle figure di primissimo piano, compresa la maggioranza degli ex segretari. È un dato che va analizzato con serietà. Non servono e non bastano richiami moraleggianti all’autodisciplina, nostalgie del centralismo democratico o altri artifici retorici.

Certamente esiste un aspetto culturale e anche il PD si trova vittima della disgregazione individualista che caratterizza l’intera società occidentale e che rappresenta la dominante degli ultimi quarant’anni. Ma la struttura che ci siamo dati invece che contrastare il fenomeno lo radicalizza, lo struttura e lo rende elemento fondativo. Non si faccia retorica sulle correnti in un partito che vede tutti gli organismi dirigenti anche formalmente derivanti dalla scelta plebiscitaria del segretario di turno. Le nostre primarie hanno come effetto che non esiste alcuna relazione tra assemblea e ancor meno direzione nazionale e rappresentanza della base e dei territori. Le liste dell’assemblea sono definite sulla base degli accordi nazionali e collegate al nome del segretario che poi indica i componenti la direzione sulla base delle stesse percentuali della sua elezione. Una struttura che non prevede nessun luogo della sintesi e che non può che esasperare il conflitto che si sposta tutto sul piano mediatico. Della disintermediazione del rapporto tra capo e popolo si è fatto elemento costitutivo.

E mentre il dibattito è concentrato su una presunta fusione a freddo di due anime diverse e su una presunta amalgama non funzionante, mentre si utilizzano categorie come centro e sinistra per analizzare i punti di tensione e di frattura, una analisi attenta mostrerebbe che le frizioni non nascono su questo piano e che i gruppi più o meno organizzati in perenne scontro contengono provenienze ed orientamenti diversi. Il punto anzi è proprio che una discussione sugli orientamenti o sulle tendenze, che sposti come si dice la barra più al centro o più a sinistra, oggi non è possibile con la forma che ci siamo dati e tra l’altro non esiste alcun congresso possibile ma solo la diffida tra figure contrapposte che si candidino alla guida. Si alimenta così la ricerca del salvatore di turno e la conseguente inevitabile delusione che produce uno scarto. Un meccanismo simile a quando si continua a cambiare il portiere ad ogni goal nei campetti dell’oratorio.

Serve davvero una costituente democratica. E il suo fondamento è il ribaltamento del meccanismo di rappresentanza. Serve che i livelli periferici eleggano rappresentati di territorio che riuniti in assemblea ne eleggano via via altri fino ad arrivare alla assemblea nazionale e alla direzione. E solo allora ci si confronti sulla figura del segretario che sia una sintesi delle sensibilità e delle tendenze emerse dalle elezioni dei territori. In questo percorso dobbiamo dare peso ai circoli e agli iscritti. Un peso preponderante. E dobbiamo però includere meccanismi di rappresentanza e di coinvolgimento di realtà associative, di categoria, degli amministratori, dei movimenti che vogliano contribuire alla definizione di un progetto democratico per i prossimi anni.

Dobbiamo organizzare una comunità democratica che abbia antenne e innervamento nella società e che sia strutturata per cogliere idee, stimoli, intercettare l’innovazione e fare sintesi. È il tempo di uno sforzo più profondo in chiave democratica andando con radicalità al fondo del senso di questa parola nel contesto di una crisi della democrazia che coinvolge l’intero Occidente.

4 COMMENTI

  1. Le riflessioni di Roberto sono corrette e condivise: rimane lo sconcerto di tutti noi su “passaggi” incomprensibili e “fuori di testa “ come i passaggi dalla Durso,delle sardine, di Grillo .Siamo smarriti, confusi ed incazzati. Così non va! O i circoli ed i territori diventano co- protagonisti della vita e delle scelte future o rischiamo di chiudere baracca e burattini. Mai come ora questa diventa una possibilità reale

  2. Siamo nati male. Troppo in fretta forse! Non è bastato un bel discorso al Lingotto, che già il giorno dopo ne perdeva dei pezzi. Occorre un progetto politico/sociale/culturale che partendo o ripartendo dai territori rovesci la piramide. Ripartiamo con chi ci sta per la costruzione di un forte polo progressista. Se forte potrà essere anche ampio.

  3. Sono perfettamente d’accordo con l’analisi. Aggiungerei un ulteriore elemento. Le modalità di selezione della classe dirigente nel PD, associata a questa legge elettorale che non consente di scegliere, crea un circuito pericoloso e assurdo: eleggiamo un segretario e l’assemblea con le primarie, senza un vero confronto con le rappresentanze di base, la dirigenza compila le liste elettorali sulle quali, complice la legge elettorale, non abbiamo nessuna possibilità di scelta.
    So che nel PD ci sono sensibilità diverse ma sarebbe il caso di riflettere su quanto affermava Gramsci circa il partito, le classi dirigenti e la burocrazia: ….A un certo punto della loro vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali, cioè i partiti tradizionali in quella data forma organizzativa, con quei determinati uomini che li costituiscono, li rappresentano e li dirigono non sono più riconosciuti come loro espressione dalla loro classe o frazione di classe. Quando queste crisi si verificano, la situazione immediata diventa delicata e pericolosa, perché il campo è aperto alle soluzioni di forza, all’attività di potenze oscure rappresentate dagli uomini provvidenziali e carismatici. ….Nell’analizzare questi sviluppi dei partiti occorre distinguere: il gruppo sociale; la massa di partito; la burocrazia e lo stato maggiore del partito. La burocrazia è la forma consuetudinaria e conservatrice più pericolosa; se essa finisce col costituire un corpo solidale, che sta a sé e si sente indipendente dalla massa, il partito finisce col diventare anacronistico, e nei momenti di crisi acuta viene svuotato del suo contenuto sociale e rimane come campato in aria.

  4. Molto d’accordo con Roberto, e grazie anche a Giovanni per l’opportuna citazione di Gramsci. Il PD ha perso l’appoggio dei lavoratori e dei giovani perché non ha saputo rappresentarli; può farlo se crea al suo interno spazi di discussione che coinvolgano iscritti e simpatizzanti, e un sistema di formazione e selezione di dirigenti che rappresentino la base e le rendano conto del loro operato. Deve ripensare la forma partito. Quella attuale delega tutto al segretario e (per via dei meccanismi di formazione “a liste bloccate” dell’Assemblea e della Direzione) fa sì che i dirigenti rendano conto apparentemente al segretario, in realtà ai capi delle liste elettorali delle primarie; e lo stesso i parlamentari (per via delle “liste bloccate” anche in questo caso); in ogni caso mai alla base degli iscritti e dei sostenitori. I quali si sentono incapaci di incidere, e questo genera frustrazione e scoraggiamento. Solo con la partecipazione dal basso si può recuperare quel “contenuto sociale” di cui parlava Giovanni.

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