Una norma di civiltà per i giovani italiani senza cittadinanza
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Una normativa di civiltà da rilanciare e riproporre. È così che il nuovo segretario del PD Enrico Letta definisce la riforma della legge sulla cittadinanza, datata 1992 in un Paese che negli ultimi trent’anni ha visto mutare radicalmente il rapporto con le migrazioni e con la percezione di sé stesso, da un’Italia patria di emigranti approdati ai quattro angoli del pianeta a un’Italia patria di ragazze e ragazzi le cui famiglie approdano qui dai quattro angoli del pianeta, ma che sono nati o cresciuti in Italia.

Una patria fatta di molti cittadini che hanno saputo accogliere e donare speranza, e sono per questo al centro dei pensieri colmi di gratitudine di persone che hanno costruito qui la loro famiglia e chiamano l’Italia casa. Come i 17mila albanesi sbarcati a Brindisi 30 anni fa che ora chiedono tramite una petizione che sia data una medaglia al valore civile alla città e raccolgono testimonianze emozionanti perché siano il lascito di una preziosa memoria collettiva per i giovanissimi di oggi.

Proprio quei giovani che vivono con naturalezza la condivisione di spazi scolastici e ricreativi con compagni figli di persone che non sono nate in Italia. Spesso si diventa migliori amici con la stessa naturalezza, ma arriva presto il momento di capire che non si è affatto uguali. Quel momento è sconvolgente per entrambi e segna indelebilmente la vita dei figli degli immigrati. Come argomentava nel 2006 l’estensore di uno dei progetti di riforma, l’allora ministro dell’Interno Giuliano Amato, la cittadinanza è il «“rapporto fondamentale” che si instaura tra lo Stato e i singoli individui» e nella Carta costituzionale «numerosissime sono le disposizioni che si indirizzano ai “cittadini” e che fanno sorgere diritti e obblighi solo in capo a questi ultimi».

Un’esclusione che si aggiunge ad altre in ambito civico, culturale e sociale. Giovani di serie B, quindi, legati a doppio filo alla necessità di rinnovare il permesso di soggiorno per continuare a vivere nel Paese dove sono nati e cresciuti. Ecco perché è giusto parlare di normativa di civiltà. È arrivato il momento per il PD di ricucire il rapporto con quella galassia di movimenti e associazioni nate su impulso delle cosiddette seconde generazioni e che hanno vissuto come un tradimento la mancata approvazione della riforma nel 2017. In un Paese dove sentiamo dire da anni – troppo spesso anche nel nostro campo – che ci sono cose più urgenti da fare che pensare a questa riforma, la volontà di riprendere la discussione parlamentare sul tema è uno dei forti segnali identitari del Partito Democratico attorno a cui confrontarsi con altre forze politiche e costruire alleanze.

Dal primo giorno del Governo Draghi ho auspicato nei miei articoli che il PD lavorasse in questo senso in Parlamento, rendendo così un servizio all’Italia tutta. Non a caso alle parole di apertura del nuovo segretario è partito un intenso fuoco di fila contrario dai partiti che fanno della retorica anti-integrazione il fulcro della propria attività politica. Significa che sono state “dette cose di sinistra” e questo non può che essere uno sprone ad andare avanti. Se facciamo seguire alle parole i fatti potremo ricostruire legami di fiducia con quell’ampio popolo dentro e fuori dal partito (e dalle ztl) che è pronto a sostenere azioni politiche concrete, mettendoci la faccia nei territori.

Apriamoci al confronto con i giovani italiani senza cittadinanza, un’ampia fascia demografica di persone (dagli adolescenti ai trentenni), che non si rassegnano ad essere esclusi perché hanno imparato a combattere per i diritti – propri e di tutti – come si fa nella migliore tradizione della società civile di questo Paese. Sono anche loro parte della “prossima generazione europea” a cui intestiamo il debito comune europeo e che non possiamo ignorare, anche perché sa porci con forza i temi a cui tiene. Come la necessità di tornare a mettere al centro l’uguaglianza e la giustizia sociale.

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