La storia di Loujain e “la colpa” di difendere i propri diritti in Arabia Saudita
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Se le donne in Arabia Saudita hanno ottenuto il diritto alla guida, il merito è suo. Ma Loujain al Hathloul ha finora pagato a caro prezzo il suo impegno per i diritti civili nel paese guidato dal principe ereditario Mohammed bin Salman.

La storia di al Hathloul inizia nel 2018. In quell’anno, la trentenne era una delle principali animatrici dei movimenti femministi che da anni chiedevano al regime saudita di concedere anche alle donne di guidare le macchine legalmente. Si trattava di una lotta lunga e tormentata che aveva visto diverse generazioni combattere per questo diritto fin dal 1993. Grazie anche all’attivismo di al Hathloul proprio il 2018 era stato l’anno della svolta. Il governo saudita aveva infatti concesso il diritto alla guida alle donne.

Ma proprio quello che avrebbe dovuto essere un anno da festeggiare si sarebbe presto trasformato nell’inizio di un incubo. Il regime di Riad decide infatti di punire l’attivista considerata “una minaccia alla sicurezza nazionale” per la sua visibilità nazionale e internazionale e per la sua decisione di mettersi alla guida di un’auto quando quest’azione era ancora considerata illegale. L’arresto del 2018 non è il primo che colpisce al Hathloul. Ma questa volta il governo sembra aver deciso di “distruggere” la donna come denunciato recentemente dalla sorella Lina in un’intervista a Mediapart pubblicata su Il Fatto Quotidiano.

Loujain al Hathloul viene così rapita dalle forze dell’ordine saudite e detenuta in un carcere di massima sicurezza proprio nell’anno in cui il principe saudita Mohammed bin Salman (MbS) si presentava al mondo occidentale come il grande riformatore che concedeva il diritto alla guida alle donne. Un racconto che ignorava, anzi cercava di cancellare, il contributo essenziale di chi per quel diritto aveva lottato sfidando proprio il regime saudita.

Per al Hathloul e le sue compagne la ricompensa è una repressione dura e spietata. Nel corso dei due anni e mezzo successivi, l’attivista ha denunciato a più riprese di avere subito violenze, elettroshock e stupri in carcere.  Le autorità di Riad hanno sempre respinto queste accuse, ma, nonostante le richieste della famiglia e di organizzazioni come Amnesty International, si sono sempre rifiutate di liberarla.

Si arriva così all’ottobre 2020 quando stremata dalle condizioni della vita carceraria, al Hathloul inizia uno sciopero della fame chiedendo di potere almeno vedere la famiglia. In un primo momento il governo fa sapere di essere prossimo a rilasciarla. L’annuncio arriva alla viglia del G20 sulla condizione femminile presieduto, ironia della sorte, proprio dall’Arabia Saudita. Ma il dicembre dell’anno scorso, le autorità ci ripensano e la condannano a cinque anni di carcere sempre con l’accusa di minacciare “la sicurezza nazionale”.

La protesta, però, cresce dentro e fuori il paese: il 21 febbraio l’attivista viene finalmente scarcerata. La sorella Lina invita però a non parlare di una “liberazione”. In effetti la scarcerazione è avvenuta perché i giudici hanno deciso di considerare i tre anni passati in cella come parte della pena e hanno fatto decadere i due restanti. Restano comunque dure restrizioni.

Al Hathloul rischia ancora di tornare in carcere e le è stato vietato compiere viaggi all’estero per i prossimi cinque anni. Inoltre, non le è consentito parlare pubblicamente delle violenze subite in carcere. L’attivista ha presentato ricorso, ma ha perso ricevendo la sentenza senza la firma dei giudici. Una violazione del diritto saudita.

Nel frattempo, il governo ha fatto sapere di avere diverse prove del “tradimento” di al Hathloul, ma non le ha mai rese pubbliche. Ciò che il mondo ha visto è invece stata la repressione di una donna incarcerata per tre anni perché “colpevole” di avere lottato per dei diritti fondamentali.

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