I fatti denunciati su Facebook da Marta Loi hanno gettato luce sulla prassi grave e inaccettabile che viene seguita da alcune ASL e servizi cimiteriali quando una donna interrompe una gravidanza dopo la ventesima settimana. In questi casi, se la donna lo richiede, è prevista la sepoltura non anonima del feto. Quando quella richiesta manchi, la norma del regolamento di polizia mortuaria del 1990 prevede soltanto che la sepoltura sia assicurata – per ragioni igieniche – dalla ASL e dai servizi cimiteriali.
La signora Loi non aveva dichiarato di voler seppellire il feto apponendo il proprio nome sulla tomba. In modo sconvolgente, ha però scoperto che era però avvenuto quello che lei non aveva mai chiesto e a cui non aveva dato consenso. Ha fatto bene, allora, il Garante per la protezione dei dati personali ad aprire una istruttoria su questa gravissima violazione della privacy, che si traduce in una violenza nei confronti di questa donna.
Fin qui i fatti, gravissimi. Non possiamo però fermarci alla denuncia, né alle necessarie azioni in sede civile e amministrativa per impedire che tutto questo continui ad accadere senza conseguenze. Credo sia necessario interrogarsi più in profondità su quello che questa vicenda insegna – o meglio, tristemente conferma – sullo stato di salute della libertà delle donne nel nostro paese, soprattutto quando si tratta del diritto di scegliere se e come diventare madri.
Non è qui in discussione il diritto della donna di scegliere se e come seppellire il feto, e secondo quale rito farlo. Questa scelta è – e deve rimanere – libera, com’è adesso, per le interruzioni di gravidanza fatte oltre il terzo mese, cioè quelle terapeutiche (effettuate nei casi di malattia del feto o rischio grave di vita per la madre)
Queste ultime di solito riguardano gravidanze e figli desiderati, ed è quindi pienamente comprensibile che una donna e la sua famiglia scelgano la sepoltura. Sono questioni molto intime su cui non si può sindacare, in un senso e nell’altro: massimo rispetto per chi sceglie la sepoltura, altrettanto rispetto per chi non la vuole.
Quanto accaduto a Marta Loi dimostra però quanto sia ancora drammaticamente diffuso un approccio paternalistico verso la libera scelta delle donne: è sufficiente leggere la sua testimonianza per rendersene conto. Nessuno spazio per la comprensione delle ragioni della signora e della sua scelta; tutto al contrario, un’insistenza davvero inaccettabile sulla possibilità di ripensarci e, infine, la sepoltura sotto una croce – per tradizione, è stato detto – e con il nome della madre.
Sembra incredibile che a 42 anni dall’entrata in vigore della legge 194 ancora si debba lottare per ottenerne la piena applicazione. Ed è doloroso dover prendere atto di quanta fatica faccia ad affermarsi, nel nostro paese, una cultura fondata sul rispetto della libertà di scelta non solo a parole, ma anche nelle prassi concretamente poste in essere dalle amministrazioni.
Penso ai dati sulla presenza di personale non obiettore nelle strutture sanitarie e nei consultori, che in alcune aree del paese rasentano lo zero. Ecco, su questo è necessario che la politica dica una parola chiara e agisca di conseguenza: dove la presenza di personale sanitario (medici, infermieri ecc.) che si appella all’obiezione di coscienza rende difficile, quando non impossibile, alle donne ricorrere all’aborto, vanno indetti concorsi mirati e specifici per assumere medici e infermieri non obiettori. Si può fare: il presidente Zingaretti, nel Lazio, l’ha fatto.
Ma penso anche, al contrario, a quelle Regioni – come l’Umbria o il Piemonte – in cui attorno alla libertà delle donne si giocano ancora battaglie strumentali e ideologiche, ad esempio imponendo l’ospedalizzazione per la somministrazione della RU486, anche quando le condizioni di salute della donna non lo richiedono e nonostante le Linee guida del Ministero della Salute dicano esattamente il contrario.
Ancora una volta, dunque la libertà di scelta delle donne è campo di battaglia, strumento di visibilità, posizionamento o polemica politica. Lo abbiamo visto nei mesi scorsi: dal Congresso di Verona al dibattito sul ddl Pillon, fino agli innumerevoli casi in cui donne libere e magari impegnate in politica diventano bersaglio di odio e violenza sul web (e non solo), sul corpo delle donne si consuma l’alternativa tra oscurantismo e progresso, tra oppressione e libertà, tra violenza e rispetto.
La strada da percorrere è chiara, e segnata dalla Costituzione; e il Partito democratico non può fare a meno di seguirla, nel nome della libertà di scelta e autodeterminazione delle donne.