Informazione o uniformazione? Anche questo “dipende da noi”
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La nostra è stata definita l’era dell’informazione. La prestigiosa associazione internazionale Reporters Sans Frontiers colloca l’Italia nel 2020 al 41esimo posto nella classifica mondiale sulla libertà di stampa, scendendo di 1.29 punti rispetto al 2019.

Non esistono cioè Stati dove la stampa è profondamente libera, ma ne esistono alcuni, che più di altri, consentono di avere un’informazione corretta accompagnata da un’ampia libertà di espressione. Semplicemente riportando le notizie nella loro evidenza e garantendo, non essendoci una sola definizione e un monopolio della verità, tutte le possibili interpretazioni.

A prendere atto di quanto accaduto nelle ultime ore a Laura Boldrini, l’immediata percezione è che si sia passato dall’epoca dell’informazione a quella dell’uniformazione.

E forse dovremmo rileggere le celeberrime pagine della rubrica di Umberto Eco – La Bustina di Minerva – che ci avvertiva di quanto il politically correct, nato per difendere i diritti delle minoranze, si stesse già trasformando allora, e non eravamo ancora entrati nel XXI secolo, in un nuovo fondamentalismo o peggio in conformismo intollerante. E di contro non sarà necessario, poiché questa breve riflessione non ha alcun intento polemico, citare l’art. 21 della nostra meravigliosa Costituzione, ma urge evidenziare e ricordare che il pensiero critico si nutre di libertà mettendo molto spesso in discussione ciò che sembra essere una saggezza comune nonché sottolineando errori e banalizzazioni.

Ho letto con rispetto le parole del direttore Feltri e una democratica indignazione mi ha inevitabilmente raggiunto facendomi ripensare al monito di Karl Kraus. “Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia”, scrisse, disperato dal fatto che, dinanzi all’indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale, alla gente non si fosse paralizzata la lingua: tacere per lo scrittore-saggista significava riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi.

Ora caro direttore Feltri, va da sé che pensare quel che pensa e scriverlo è un suo diritto, ma è altrettanto suo dovere trattare con meno tracotanza gli “ospiti” – io fra questi – e rinunciare a ciò che è individuale, ad esempio la facoltà di decidere “cosa va sul mio giornale”, eludendo forse il codice deontologico, in nome del bene collettivo.

E questo intervento, lo legga come un invito a riflettere: stiamo attraversando un momento di straordinaria importanza, stiamo provando a porre rimedio a quell’indicibile orrore che è la violenza sulle donne, e dipende da noi promuovere ogni utile occasione di ripensamento. Serve maggiore responsabilità, perché certe concitate parole, pronunciate dalle lingue sciolte, non solo possono risvegliare i nostri istinti più bassi, aizzare la bestia dell’odio che dorme in ognuno di noi e provocare quella cecità delle passioni, che rende pensabile e giustificabile ogni misfatto.

Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e dobbiamo tutti usare, nei propri ruoli, una dose, magari “intelligente”, di libero pensiero e non di veemenza per arginare e porre fine alla terribile violenza quotidiana.

Confido che, insieme a me, farà sue le parole di Federico Fellini, un grande italiano: “La censura è sempre uno strumento politico, non è certo uno strumento intellettuale. Strumento intellettuale è la critica, che presuppone la conoscenza di ciò che si giudica e combatte. Criticare non è distruggere, ma ricondurre un oggetto al giusto posto nel processo degli oggetti. Censurare è distruggere, o almeno opporsi al processo del reale”.

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