Come digitalizzare l’attesa e curare la polis

L’attesa. Noi italiani l’abbiamo introiettata senza rimedio, tramandandola di generazione in generazione, tra treni regionali in ritardo (probabilmente by design) e cantieri eternamente aperti.

Così, altro che indignarci: non riusciamo neppure a stupirci dell’ennesimo disservizio che puntuale come una condanna accompagna il lancio di ogni iniziativa in salsa digitale. E questo nonostante il dato tecnico che oggi sia più difficile progettare e realizzare un servizio non “scalabile”, che cioè non riesce a gestire come si deve i famigerati “picchi”, anziché il suo contrario: la riproduzione digitale della coda allo sportello. Montagne di denaro pubblico spese nel tentativo anacronistico di costringere alla serialità, all’uno-alla-volta, la sterminata rete di dispositivi in cui viviamo e che se non la ingabbiassimo in modalità contronatura sarebbe di per sé portata al multitasking, al parallelismo, alla dinamicità.
E così la disfunzione, il disservizio, il “riprova più tardi”, conditi spesso da vaporosi inviti alla pazienza degni di un Beckett che gli addetti alla comunicazione e i virtuosi della user experience dispensano sulle piattaforme stesse e sui social, sono la firma e il coronamento di ogni sforzo di digitalizzazione di Stato.

In fondo però non sono gli errori tecnici a rendere così fragile la digitalizzazione all’italiana, non è il vizio endemico nella nostra pubblica amministrazione di calare le braghe davanti all’onnipotenza dei fornitori, con questi ultimi protagonisti di un incredibile gioco di scatole di cinesi di appalti e subappalti che finisce per mettere pezzi strategici dell’infrastruttura cibernetica nazionale in mano a gente poco qualificata o peggio ancora malintenzionata (si veda l’affaire Leonardo di qualche giorno fa), non è neppure la deresponsabilizzazione assurta a misura delle cose, né i progetti che vedono la luce pieni di debito tecnico, già obsolescenti, perché così si lascia un addentellato per nuove commesse,

No, il problema di fondo è la carenza di una cultura della governance della trasformazione digitale, l’incapacità dello Stato di pensare in maniera sistemica, in un Paese in cui l’innovatore è immaginato come un incrocio tra l’idiot savant che si trastulla con droni e stampanti 3D (e non sa dar conto di ciò che fa) e il guru dalla favella oracolare. L’uno e l’altro, io sospetto, tentativi nemmeno troppo malcelati di rimuovere un pensiero scomodo: il sospetto che, dopo tutto, un mondo che corre sempre più in fretta ci ha lasciati indietro. Definitivamente.

Ma ancora più profondamente a me sembra che si nasconda un problema ancora più grave. Mi riferisco alla mancanza di onestà intellettuale di una classe dirigente che partorisce di continuo politiche di digitalizzazione passivo-aggressive, che si preoccupa di far crescere l’indicatore del momento (oggi sono i download di una nuova app di Stato e il numero di identità digitali rilasciate, ieri erano il numero di computer per scuola e le ore di informatica) o peggio confonde i piani (digitalizzazione come società della sorveglianza) anziché sforzarsi di proporre una visione, un’idea condivisibile e condivisa sulle priorità dello sviluppo, la direzione da prendere, gli scenari in cui muoverci.

Paul Tucker, già vicegovernatore della Banca d’Inghilterra, nel suo Unelected Power si interroga sul ruolo e sulla legittimazione di soggetti pubblici non espressi dalla volontà elettorale e sulle loro agende, portate avanti in un gioco di equilibri con il potere politico che da tempo ha imparato a usare a proprio vantaggio la loro indipendenza.

In Italia la digitalizzazione pubblica, affidata variamente ad agenzie e ministri senza portafoglio, senz’altro di buona volontà ma privati dei mezzi di agire, ha bisogno di politicizzarsi e depoliticizzarsi nello stesso tempo: cioè deve da un lato affrancarsi dal ruolo che ha adesso, di merce di scambio e specchietto per le allodole per una politica che l’ha sempre sbandierata per sbarazzarsene più in fretta, dall’altro dare un colpo d’ala e prendere coscienza che essa è anzitutto, anzi prima di ogni altra cosa, cura della polis.


Roberto Reale è il Presidente di Eutopian, Osservatorio europeo sull’innovazione democratica

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