Cannabis, l’ora della ragione e del buon senso (contro l’inutile caccia alle streghe)
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Forse non tutti sanno che in Italia curarsi con la cannabis è assolutamente legale, riconosciuto da un processo che – attraverso vari decreti ministeriali – è partito nel 2007 ed è andato via via perfezionandosi, fino ad arrivare ad una delle legislazioni più avanzate d’Europa.

Forse non tutti sanno che, però, a fronte di questo, il nostro Paese vive una situazione paradossale, per la quale l’utilizzo di terapia a base di cannabis, per i pazienti che ne avrebbero bisogno, è una insopportabile corsa ad ostacoli. C’è un drammatico problema di formazione di medici e farmacisti, oltre che un’enorme lacuna dal punto di vista informativo e di coordinamento nazionale e regionale.

Forse non tutti sanno che, nonostante questo vulnus, il fabbisogno stimato di cannabis terapeutica è di 1950 chilogrammi a livello nazionale. In Italia l’unico ente preposto alla produzione di cannabis ad alto contenuto di Thc è l’Istituto chimico farmaceutico militare di Firenze e il tetto massimo di produzione annua è fissato a 500 chilogrammi. Nel 2020 ha distribuito alle farmacie cannabis per soli 157 chilogrammi, con un totale di vendite ammontante a 860 chilogrammi di cui 252 chilogrammi di prodotti importati dall’Olanda.

Forse non tutti sanno che il decreto-legge n. 148 del 2017 stabilisce che il medico (qualsiasi medico, specialista o di medicina generale) può prescrivere le preparazioni magistrali a base di cannabis a carico del Servizio sanitario nazionale, se prescritte per la terapia del dolore e per sclerosi multipla, lesioni del midollo spinale, dolore neurogeno, effetti da chemioterapia, radioterapia, terapie per Hiv, perdita dell’appetito in pazienti oncologici o affetti da Aids e nell’anoressia nervosa, e per glaucoma e sindrome di Gilles de la Tourette. Inoltre, il medico può prescrivere tali preparazioni anche per altri impieghi, ma al di fuori del regime di rimborsabilità.

Ora che anche i meno informati sanno tutto questo, è facile intendere come l’insufficiente disponibilità (tra importazione e produzione) di cannabis medica, problemi di produzione o di consegna, code di attesa, ridotto numero di farmacie che fanno preparazioni galeniche, inaccuratezza delle quote annuali di cannabis stimate dalle regioni, rappresentino ostacoli quotidiani che impediscono a migliaia di pazienti di ottenere la terapia o di ottenere una continuità terapeutica.

Di qui la conseguenza più naturale è sotto gli occhi di tutti: le difficoltà connesse al reperimento dei prodotti a base di cannabis spingono i pazienti a rivolgersi al mercato nero pur di alleviare le proprie sofferenze e trovare un po’ di sollievo, oppure, nel migliore dei casi, all’autoproduzione che fornisce delle garanzie in più sulla qualità, ma lascia privi di tutela giuridica chi ne fa uso.

Davanti a questo scenario, le forze di maggioranza hanno finalmente deciso di muoversi. Con una mozione parlamentare, frutto di un’iniziativa congiunta di Pd, M5s e Italia Viva, i 93 deputati firmatari (tra cui esponenti del Gruppo Misto e anche di Forza Italia) chiedono, tra le altre cose, che:

  • rimuovere gli ostacoli per l’approvvigionamento e la continuità terapeutica, aumentando la produzione nazionale con maggiori autorizzazioni a enti pubblici e privati, con maggiori importazioni dall’estero
  • adottare iniziative normative volte a introdurre eccezioni alla configurabilità del reato di coltivazione di stupefacenti, quando le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, siano destinate in via esclusiva all’uso personale del paziente/coltivatore, rendendo tale pratica legale
  • promuovere e aumentare la ricerca scientifica e l’informazione sulla cannabis medica
  • revocare il decreto del Ministero della salute del 1° Ottobre 2020 sulla collocazione del CBD (principio attivo della cannabis senza effetti psicotropi) nella sezione B della tabella dei medicinali derivati da stupefacenti
  • ritirare la circolare del Ministero della salute del 23 settembre 2020 che vieta la consegna a domicilio di medicinali a base di cannabis

Chi volesse leggere il testo integrale della mozione parlamentare, lo puoi fare consultandola direttamente a questo link.

E’ evidente il tentativo del parlamentari di allineare l’Italia a quanto sta avvenendo nel resto dei Paesi più avanzati, dove la questione viene affrontata in maniera sempre più scientifica e sempre meno approssimativa e preconcetta, come invece viene propugnato dalla destra più estrema e oscurantista.

A beneficio del lettore, andiamo a ricordare alcuni importanti avvenimenti politici delle ultime settimane. In primis il voto della Corte di Giustizia europea che, con sentenza del 19 novembre 2020, ha stabilito che uno Stato membro non può vietare la commercializzazione del cannabidiolo (il suddetto CBD) legalmente prodotto in un altro Stato membro quando è estratto dalla pianta di cannabis sativa.

Poi lo storico voto del CND (Commission on Narcotic Drugs) della Nazioni Unite che per la prima volta ha tolto una sostanza (guarda caso, la cannabis) dalla tabella IV delle sostanze stupefacenti più pericolose (risalente al 1961), inserendola nella Tabella I e riconoscendone ufficialmente e universalmente le proprietà terapeutiche. E infine l’atto politico con cui la Commissione Europea si è espressa relativamente al CBD come alimento e non come sostanza stupefacente.

Una tendenza che sembra essere confermata da un nuovo approccio globale al tema cannabis. Non più un tabù o un vezzo per pochi ultra liberal, ma un’opportunità da una moltitudine di punti di vista. Basti pensare a quel che sta succedendo negli Stati Uniti e, più in generale nel continente americano, dove il Canada, dopo l’Uruguay, è stato il primo grande Paese a legalizzare anche l’uso ricreativo della cannabis, più di due anni fa, ed oggi raccoglie i frutti di questa mossa, con il mercato legale che per la prima volta ha superato quello illegale. E a dispetto di quanto andavano affermando tutti i detrattori, il consumo non è aumentato, semmai è diminuito.

Negli Usa, dal 2014 ad oggi, sono 15 gli Stati che hanno legalizzato l’utilizzo ricreativo, ne 38 l’uso medico. E non si tratta solo di stati democratici e progressisti, ma anche di stati repubblicani e molto conservatori. Si va infatti dalla California al Montana, dal Colorado al South Dakota, dal New Jersey al Mississippi. Ma la cosa più impressionante sono i dati riguardanti l’opinione dei cittadini. Dal 2000 ad oggi, si è passati da un 30% di elettori favorevoli alla legalizzazione al 68% fotografato dall’ultimo sondaggio firmato Gallup.

In un’America divisa praticamente su tutto, la questione cannabis è forse l’unica che in questo momento sta mettendo d’accordo tutti gli elettori. Tanto che i democratici hanno già calendarizzato (e approvato) alla Camera una proposta di legge (il MORE Act) che prevede la depenalizzazione e la riclassificazione della “marijuana” a livello federale. Ora il provvedimento è in attesa di capire quale sarà la nuova composizione del Senato (appuntamento al prossimo 5 gennaio) per valutare la definitiva approvazione.

D’altronde gli Stati Uniti sono stati il Paese in cui si è potuto toccare con mano, più che altrove, il totale fallimento dell’approccio legato alla War on Drugs, che non ha fatto altro che fornire ossigeno alle organizzazioni criminali, creare squilibri sociali con la formazione di ghetti e diseguaglianza diffusa, intasato tribunali e carceri – rendendo impossibili le condizioni di vita di detenuti e addetti ai lavori – riempito le strade di spacciatori e persone di ogni estrazione ed età costrette a rivolgersi al mercato nero.

Anche in Italia, recentemente, è stato svolto un sondaggio, proprio sulla cannabis terapeutica. Porta la firma di Swg ed è stato commissionato dalla rivista di settore BeLeaf Magazine, insieme a PQE Group, azienda italiana leader nel settore qualità. Ebbene, i numeri sono molto chiari: il 78% degli intervistati, quasi quattro concittadini su cinque, è dell’idea che la produzione di cannabis terapeutica vada incrementata ed ampliata. Circa la metà è d’accordo con l’autocoltivazione per uso personale.

Dati che dimostrano come gli italiani siano assolutamente pronti ad affrontare il discorso in maniera laica, abbandonando pregiudizi buoni solo per un’inutile e controproducente caccia alle streghe. I vantaggi, anche in termini economici – e, soprattutto in questo momento, non è un aspetto secondario – sono sotto gli occhi di tutti. Con la legalizzazione si parla di almeno 6 miliardi di euro dal punto di vista del Pil (sottratto alle mafie) e della creazione di più di 300mila posti di lavoro.

Numeri che dovrebbero imporre riflessioni serie, in un Paese in cui esiste una legge, la 242 del 2016, che sulla carta incentiva la flliera della canapa (una pianta dalle straordinarie proprietà di ecosostenibilità ambientale, si pensi agli usi tessili, cosmetici, energetici, agricoli ed industriali), ma che di fatto lascia un vuoto di incertezza anche solo sulla vendita di infiorescenze e derivati a bassissimo contenuto di Thc (meno dello 0,2% di principio attivo, la cosiddetta cannabis light).

Insomma, il lavoro da fare è grande, ma la strada sembra tracciata. L’importante è riuscire a far prevalere l’approccio razionale e di buon senso su quello antiscientifico e retrogrado che non ha portato a nulla di buono.


Marco Furfaro è responsabile Comunicazione nella segreteria nazionale del Partito Democratico

Stefano Cagelli è un giornalista di Immagina e direttore responsabile della rivista BeLeaf Magazine

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