Giorni di un futuro passato

Cinque giorni dopo gli attacchi dell’undici settembre 2001, cinque giorni dopo che due arei di linea avevano distrutto le torri gemelle ed altri due si erano schiantati, uno contro il Pentagono ed una nella campagna a sud di Washington DC, il Presidente George W. Bush di ritorno da Camp David e affiancato da sua moglie Laura così parlava agli americani: “This crusade – this war on terrorism – is going to take a while,” Bush said. “And the American people must be patient. I’m going to be patient. But I can assure the American people I am determined.”

In quello stesso mese, una giovane tech company fondata solo tre anni prima da due informatici a Palo Alto – Google LLC – stava per diventare il principale motore di ricerca del world wide web scalzando Yahoo e Msn Search di Microsoft. Nel 2001 all’Ardsley High School di Dobbs Ferrry, Mark Zuckerberg era il capitano della squadra di scherma scolastica e Jack Dorsey faceva il modello.

I primi anni del nuovo secolo non erano gli albori dell’informatica, né di internet ma riguardati con gli occhi di adesso – di un mondo che ha scoperto d’un tratto come il controllo delle nostre vite sia un dato reale che ci condiziona – quegli anni assomigliano ancora ad una certa età dell’innocenza.

Uno degli aspetti chiave della “guerra al terrore” fu l’apertura verso una massiccia
sorveglianza di stato attuata attraverso e con il favore economico delle grandi società
tecnologiche del tempo di allora e di quello che sarebbe venuto dopo. Una punto chiave della sorveglianza post 9/11 riguardava l’enfasi sul futuro e poneva le basi per intelligence predittivo: invece che concentrarsi sull’individuazione di atti passati, le forze dell’ordine e gli sforzi di sicurezza grazie alla enorme sono ora orientati alla prevenzione di futuri attacchi.

Questo passaggio alla sorveglianza preventiva è stato reso possibile grazie ad uno spostamento tecnologico verso modelli di vigilanza di lungo periodo operata in maniera massiva (per numero di persone) e generalizzata (delle attività quotidiane). Si posero allora le basi di quello che, molti anni dopo esserne stata una parte importante, Shoshanna Zuboff definirà il “Capitalismo della sorveglianza”.

Quella fase della storia è esattamente quella in cui – per citare uno dei più grandi
intellettuali scomparso a causa del Covid – le forze democratiche si sono distratte ed hanno lasciato che quella che ancora negli anni ottanta era una società di cittadini diventasse una società di consumatori. Ben intesi: non c’è stato nessun complotto o nessun piano globale. Semplicemente le trasformazioni sociali accadono sotto la spinta della politica e dell’economia.

A partire dalla fine di febbraio, quando cioè l’emergenza è diventata evidente a tutti nelle sue forme e proporzioni, si è diffusa tra i leaders e nel mainstrem comunicativo l’uso metaforico del Covid-19 come di una guerra: “Gli Stati Uniti stanno vincendo e vinceranno la guerra contro il Covid-19” ha detto giorni fa Donald Trump dopo che ad inizio mese Mario Draghi aveva scritto nella sua lettera al FT: “Siamo in guerra contro il Coronavirus e dobbiamo mobilitarci di conseguenza”. E nello stesso solco un Boris Johnson pre ospedalizzazione col suo “Dobbiamo agire come ogni governo in tempo di guerra, e fare qualunque cosa per sostenere la nostra economia”, inseguiva Emmanuel Marcron che dal suo “siamo in guerra” era tornato a salire nel
gradimento dei francesi.

Questo fenomeno lessicale è stato notato da diversi osservatori (Cassandro e Testa su “Internazionale”, Pascoletti su “Valigia Blu” e Cancrini su Repubblica solo
per citarne alcuni): molti hanno ricordato quanto questo approccio comunicativo – figlio di una emergenza che ha richiesto misure restrittive, interruzione di servizi, strade vuote e quotidianità stravolte – possa essere fuorviante e diventare pericoloso perché “trattare una malattia come fosse una guerra ci rende ubbidienti, docili e, in prospettiva, vittime designate” come scriveva Susan Sontag.

Forse anche per questo nelle ultime settimane ho iniziato a domandarmi se non
abbiamo tutti più bisogno di abbandonare certi toni e comportamenti di emergenzialità e pur nella straordinarietà di questi nostri giorni affidarci gli uni agli altri come comunità senzienti.

Se ci fermiamo ad osservare i dati del Viminale scopriamo che oltre sette milioni di controlli sono stati effettuati dall’undici marzo al quattro aprile: e meno del 3% è risultato non in regola. Come italiani ci siamo comportati fin da subito in maniera assai più disciplinata di quanto non pensassimo. Mi chiedo allora, e se per evitare gli errori del passato lavorassimo per la valorizzazione e il coordinamento di tutto quello che in Italia sta funzionando bene. Abbiamo una rete di prossimità, solidarietà e di fiducia che si sta mostrando la vera infrastruttura sociale di questo paese: le singole amministrazioni municipali, le associazioni di quartiere, i medici di base, i centri anziani, le parrocchie, i centri sociali… Perché le soluzioni politiche “top-down” (come quelle tecnologiche che ti chiedono di fornire nuovamente i tuoi dati alle tante e varie amministrazioni che spesso li hanno già) sono risultate molto spesso inutili, quando non pericolose.

Bisognerà ripartire dal meglio, sostenendone le esperienze e le forze che si sono già mobilitate, e aggiungerci un “di più” di capacità, di invenzione, di valorizzazione dei comportamenti dei cittadini che sono chiamati a sopportare un altro pezzo di limitazioni e di riduzione delle proprie libertà.

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