Può nascere un fiore. Ripartire da giovani, ambiente e salari

Per la prima volta nella storia dell’umanità, dalla notte dei tempi o almeno da quando si ha traccia nella scrittura, siamo la generazione più povera.

Più povera e in condizioni peggiori dei nostri genitori, in primis dal punto di vista del salario che percepiamo e, in secundis, per via del potere di acquisto che hanno perso i nostri salari (già comunque più bassi in percentuale) a causa del rincaro di altre voci di spesa che andremo ad analizzare.

Quando parlo di noi, mi riferisco alla cosiddetta GENERAZIONE Z e a quella dei Millennials, sono io che ho quasi 28 anni, siamo noi, i nostri amici, i nostri fratelli e cugini 30enni e 40enni.

La storia ha regalato ad alcuni di noi e di loro l’ingresso nel mondo della scuola, dell’università, della formazione e del lavoro a partire dagli anni della crisi economica del 2008.

Stiamo parlando di una generazione povera che affronta ogni giorno le storture di un mercato del lavoro massacrato da quasi vent’anni da riforme inefficienti e poco attente ai problemi reali.

L’attacco sferrato negli scorsi giorni dal neopresidente di Confindustria Bonomi rivela in tutto il suo vigore l’atteggiamento di una parte dell’imprenditoria italiana, incapace di fare mea culpa sulle lacune di una cultura aziendale basata sulla capitalizzazione solipsistica dei profitti e sulla socializzazione delle perdite: questo fenomeno si è palesato in questi mesi con l’esplodere dell’emergenza sanitaria nel momento in cui talune aziende, con fatturati e ricavi strutturati e per nulla piegati dal covid hanno ben pensato di chiedere l’aiuto pubblico.

Occorre reagire con forza a questo stato di prepotenza da parte delle aziende, che così facendo sottraggono risorse pubbliche da meglio allocare e meglio distribuire per investire nella qualità del lavoro e consentire un livello civile e dignitoso della qualità dei contratti e dei salari dei lavoratori.

Facciamo una breve disamina su alcuni argomenti e in particolare uno che penso sia stato trascurato per troppo tempo, che era tornato al centro del dibattito e adesso è di nuovo sparito da mesi.

1) Sto parlando del salario minimo legale, enorme elefante della stanza anche a sinistra (all’interno del Partito Democratico diverse sono state le voci sul tema spesso in contrasto con l’alleato di Governo, il M5S). Alle tante voci neoliberiste che nei decenni si sono strappate le vesti per affossare il dibattito sul salario minimo paventando una depressione e contrazione della domanda aggregata di lavoro (in parole povere secondo le ricette liberiste introdurre il salario minimo conduce a maggiore disoccupazione).

Tutto ciò viene però smentito da un brillante lavoro condotto nel 1994 da Krueger e Card sugli effetti del salario minimo nel New Jersey secondo cui appunto l’occupazione non diminuisce ma anzi cresce.

In Italia, da decenni, il dibattito si avvolge talvolta sull’argomento ma mai trattandolo con la serietà che essa merita. Al di là delle singole proposte (sul lordo o netto orario da corrispondere al lavoratore – che comunque impatta in modo diverso sicuramente sulle risorse da investire) quello che mi preme sottolineare è che storicamente l’introduzione del salario minimo legale abbia sempre e solo migliorato le condizioni di vita dei lavoratori, aumentandone il salario reale.

In Italia la definizione del salario è rimessa alla contrattazione collettiva la quale può essere stabilita da accordi interconfederali o tramite accordi settoriali legati a specifici settori produttivi.

Se volessimo fare una controprova, per dirla in termini di aula di tribunale, i Paesi che possono contare su un salario minimo legale sono riusciti a proteggersi meglio dalla crisi finanziaria del 2008. Invece i Paesi senza copertura di un salario minimo legale non hanno conosciuto aumento dei salari (tranne Svezia e Austria) tra il 2009 e il 2018.

Per non parlare del fatto che in questi stati la spesa sociale dà manforte al potere di acquisto delle famiglie e dei lavoratori in quanto il welfare state è molto forte e presente davvero nella vita delle persone. In Italia affrontiamo invece ogni giorno la mancanza di un salario decente (ci sono contratti collettivi nazionali che liberalizzano barbaramente anche 3 euro nette orarie). Si pensi agli appalti nelle pulizie o nel mondo dell’agricoltura o ancora delle cooperative nel mondo della formazione.

E’ arrivato il momento di dire basta, di chiedere al nostro Partito, alla maggioranza parlamentare e al Governo intero di farsi carico di queste tematiche per noi insopportabili. Di mettere mano una volta per tutte al salario minimo, di eliminare la giungla di contratti precari e flessibili, di dire ad alta voce che i voucher senza copertura sanitaria non li vogliamo.

Di definire in modo chiaro cosa siano i contratti a chiamata e di farli rispettare in modo rigoroso affidandone la competenza e il controllo ai servizi sociali e agli assessorati al welfare e al lavoro dei Comuni (che sono i più vicini e i più in grado di controllare il reale utilizzo di tali tipologie contrattuali da parte dei ristoratori e dei bar dei loro territori); dobbiamo cancellare la barbarie delle false partite iva, dei co.co.co elusivi, di operatori sanitari e fisioterapisti, infermieri inseriti in monocommittenza nelle cooperative medico-sanitarie cui viene imposto di aprire le partite iva, di addetti call center e collaboratori intellettuali (negli studi professionali, negli studi medici e dentistici) cui viene scaricato l’intero onere contributivo a fronte della evidente monocommittenza.

Quello che dobbiamo gridare e pretendere è che sia chiaro e palese in questo il rapporto di lavoro subordinato e che i datori si facciano carico, abbiano il coraggio di investire in queste persone per lo più donne e giovani.

Dobbiamo dircelo e dobbiamo raccontarlo al nostro Partito, affinchè con coraggio se ne faccia carico, della piaga del part-time involontario, arma di ricatto a doppio senso usato per trattenere i lavoratori senza alternative e facendoli sprofondare nella povertà, con finte buste paga, con parte di compensi erogati in nero o richiesti indietro come pizzo mafioso ai lavoratori più deboli.

Infine, parlando di condizioni salariali e retributive, uno sguardo attento vorrei che lo rivolgessimo al tema dei tirocini su cui per anni si è stati in silenzio nel nostro Paese. E qui lo dico, davvero, con forza, grazie a Eleonora Voltolina a “La Repubblica degli stagisti” che negli anni ha scoperchiato il calderone dello sfruttamento dei tirocinanti e che tante battaglie ha condotto sul tema.

Grazie a Brando Benifei e a Chiara Gribaudo che nelle ultime settimane hanno con coraggio posto all’ordine del giorni il tema nel nostro partito. Lo dico da 28enne, da fuorisede che ha effettuato tre tirocini e che sulla propria pelle sa quanto sia umiliante lavorare 40 ore a settimane con rimborsi da fame. Quello che dobbiamo fare è un Libro bianco dei tirocino, una disciplina che non consenta di andare al di sotto di soglie di subsalari da fame. Coinvolgendo le Regioni e pensando a nuove politiche attive del lavoro senza slogan ed eterni sgravi alle imprese.

Pensiamo ad un reddito universale contro la povertà, sia esso di emergenza o cittadinanza, perché la tecnologia e la formazione aumenteranno i saperi, modificheranno i mestieri, ne cambieranno i connotati e le sfumature, nuove professioni nasceranno e altre scompariranno; ma la piena occupazione, impossibile in questo modello creato del neocapitale, non esiste e qualcuno rimarrà fuori (fuori anche dalla propaganda del merito e della meritocrazia). Allora a queste persone diamo un reddito per mangiare, per fare la spesa e formarsi.

Partito Democratico, combattiamola davvero la gentrificazione, la deregolamentazione, riprendiamo le periferie e ricostruiamo un tessuto di cohousing, di cosocialità abitativa, creiamo ricchezza puntando alla gree economy sia nelle smart cities sia nei piccoli centri urbani, investiamo nei beni immobili inutilizzati e nei beni comuni facendone teatro di cultura, sana gestione, creando ricchezza e facendo vivere l’associazionismo e il terzo settore che in Italia sono un vanto.

Infine una ultima proposta, che vada al di là dei populismi e delle facilonerie aritmetiche da meri contabili, riguarda il nostro futuro previdenziale e quindi quali e come saranno le nostre pensioni. Ritengo che come partito, si abbia il coraggio di rimettere mano alle storture createsi negli anni. Ho condiviso la proposta del responsabile Lavoro Miccoli di finanziare con i soldi del pacchetto SURE i nostri scivoli come ape sociale, opzione donna e ape involontaria.

Ritengo però necessario mettere mano in modo sostanziale e forte alla legge Fornero, eliminando del tutto il limite delle 2,8 volte il trattamento minimo che è un fardello pesante da centrare per poter rientrare nella pensione dai 63 anni. Infatti, come prevede la legge Fornero, per poter andare in pensione a 63 anni l’importo del rateo deve essere di circa 1.430 euro al mese (il trattamento minimo oggi previsto è di 513,01 euro al mese). Da questo pensiamo a nuove forme di welfare e previdenza sociale che, con il cuore oltre l’ostacolo, guardino al futuro; penso alla naspi in deroga o alla pensione di cittadinanza (entrambe le misure devono garantire i contributi previdenziali figurativi) che siano in grado di supportare la nostra generazione spesso e nolente caratterizzata da carriere discontinue tali per cui risulta anche difficile cumulare contributi.

Partito Democratico, cosa facciamo? Diamo una risposta a questi malesseri che affliggono tanti giovani. E’ il tempo del coraggio! Solo da noi può ripartire la ripresa economica e la tenuta psico-sociale di questo Paese.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento
Per favore, inserisci il tuo nome

spot_img