Il vero cambiamento? Riscrivere le competenze tra Stato e Regioni

L’emergenza scaturita dalla pandemia da Coronavirus ha portato alla luce, tra le molteplici criticità del nostro sistema Paese, il vero peccato originale dell’assetto istituzionale italiano. Una torre di Babele fatta di norme, leggi, ordinanze, prescrizioni e pareri perennemente conflittuali tra Stato centrale ed Enti locali. Un coacervo esploso in tutta la sua drammaticità in uno dei suoi capitoli più delicati e fragili: la sanità.

Per capire come si è arrivati a tutto ciò, facciamo un passo indietro.
Il processo di riforma del riparto di competenze tra Stato e Regioni fu avviato dall’allora Ministro della Funzione Pubblica Franco Bassanini nel 1997 con la legge di delegazione e nel 1998 con il decreto attuativo. Con questi provvedimenti, fu disposto un accentuato decentramento amministrativo di funzioni statali alle Regioni e agli Enti locali, con l’obbiettivo di ridurre in tal modo il peso burocratico.

Quest’insieme di interventi sfociarono nel 2001 nella famosa riforma del titolo V della Costituzione con cui una considerevole quantità di competenze furono devolute alle Regioni e fu istituita tra l’altro la cosiddetta competenza “concorrente” ossia che in alcune materie, elencate puntualmente dal comma 3 dell’articolo 117, le disposizioni generali sono adottate dallo Stato, mentre la legislazione di dettaglio è di competenza regionale.

Come si può capire già da questo breve riassunto, la delimitazione tra competenze, generale e particolare, risulta estremamente complessa soprattutto se si considera che alle Regioni fu data anche la facoltà di disciplinare, in maniera concorrente, materie di rilevanza fondamentale per tutto il Paese quali, ad esempio, la produzione, distribuzione e trasporto di energia nonché il turismo.

A distanza di 20 anni, possiamo affermare che tale riforma ha prodotto un aumento del peso burocratico, moltiplicando i conflitti tra gli enti amministrativi; basti pensare che oggi, su 100 processi che la Corte Costituzionale deve dirimere, 90 riguardano le competenze tra Stato e Regioni.

Se la riforma del 2001 ha provocato quindi forti disfunzioni nel funzionamento della macchina statale, la cosiddetta “autonomia differenziata” di cui si sta discutendo negli ultimi anni rischia di allargare non solo la frattura tra Stato e Regioni, ma anche di accentuare le differenze tra singole Regioni.

Innanzitutto, non è una riforma che guarda all’intero sistema, ma solo alla parte più produttiva (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna).

Aumentano considerevolmente, seppure con sfumature diverse tra le Regioni proponenti (a testimonianza della scarsa visione di insieme), le materie di esclusiva competenza regionale con la probabile conseguenza di avere cittadini di serie A, serie B e serie Z.

Il problema non è il concetto di delega in se di competenze, bensì cosa si delega, come lo si delega e l’esclusività di specifiche materie che deve essere in capo allo Stato (es. la sanità).

Prima di compiere quindi il definitivo salto nel vuoto, fermiamoci, mettiamo da parte disegni e accordi che spaccherebbero ulteriormente gli equilibri economici e sociali di questo Paese e proviamo a immaginare come sarebbe l’Italia senza questo groviglio di regole e di competenze concorrenti che ci siam dati da soli.

Proviamo a immaginare come sarebbe stata diversa la gestione dell’emergenza Covid-19 se la sanità fosse stata di esclusiva competenza statale soprattutto nelle aree più colpite.

Proviamo a immaginare tutto ciò e a realizzarlo.

3 COMMENTI

  1. La riforma del 2016 è stata un’occasione sprecata perché contemplava di tutto senza una logica. Dalla revisione del titolo V, al bicameralismo paritario, passando per la soppressione del CNEL con una serie di criticità sui pesi e contrappesi non indifferenti.
    Sarebbe stato sufficiente limitarsi alla modifica di un solo argomento da sottoporre a referendum.

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