Critica del contemporaneo, le responsabilità e il futuro della sinistra

Il processo di globalizzazione ha cominciato a manifestarsi circa cinquant’anni fa e ha cambiato profondamente tutti gli aspetti della nostra vita: dal lavoro, alle comunicazioni e ai trasporti, dalla costruzione della personalità alla percezione dello spazio e del tempo, dall’economia, alla politica e al diritto. Insieme a questo cambiamento è ovviamente cambiata la ricchezza. Negli ultimi quarant’anni infatti la scienza e la tecnologia hanno fatto progressi inimmaginabili e la ricchezza del mondo è aumentata, tanto nei paesi che avevano un minor livello di sviluppo che in quelli di più antica industrializzazione. Ma c’è una grave anomalia. L’ingente ricchezza generata è andata quasi esclusivamente nelle mani di un piccolo numero di persone, invertendo la tendenza a una più equa distribuzione che si era verificata a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Non si è trattato di una fatalità o di un fenomeno impossibile da controllare: è stato il frutto dell’ideologia economico-politica che ha conquistato l’egemonia dagli anni ’80 del secolo scorso. È amaro constatare che purtroppo da questa ideologia si sono lasciati conquistare anche i partiti della sinistra storica, tanto da essere in molti casi protagonisti, come forze di governo, delle politiche che da essa venivano dettate.

I partiti politici che si sono alternati al governo dell’Italia hanno pesanti responsabilità per la situazione in cui ci troviamo. Ma ancor di più ne hanno i partiti di sinistra, che, come nel resto d’Europa, si sono convertiti ad una “terza via” inesistente, perché altro non era che un’adesione incondizionata al neoliberismo. La gestione della crisi ha poi portato alle estreme conseguenze questa linea politica: una scelta pagata dai partiti socialisti e socialdemocratici europei con disastrosi crolli elettorali. 

Il Pd, dopo un’evoluzione (o involuzione) durata quasi un trentennio, è definitivamente approdato alla completa condivisione dell’ideologia neoliberista. Molti dei suoi elettori lo hanno via via capito, e non ritenendo che vi fossero alternative valide hanno fatto arrivare il numero di chi si astiene dal voto a livelli mai toccati prima nella storia della Repubblica.

L’essenza della sinistra era la capacità di organizzare politicamente tutto quanto avesse a che fare con soggetti per qualche ragione (storicamente determinatasi) in difetto di rappresentanza, e questo vale per ogni tipo di vita, dalle vite più riuscite a quelle che Pichon aveva chiamato le vite minuscole, quelle vite di cui spesso noi non serbiamo memoria, di cui non ci accorgiamo nemmeno, vite che scorrono nella perdita di progettualità, speranza, di soddisfazione dei bisogni elementari, e per questo motivo, condannate a non avere più nemmeno desideri, vite di cui non riusciamo nemmeno a fare il lutto perché smarrite, senza parola, senza progetto, perdute su di un barcone in fuga dalla guerra, o in un sottoscala di una fabbrica clandestina, nelle periferie abbandonate delle nostre città, nel silenzio di un sociale anonimizzato, nelle adolescenze senza ideali, nelle condizioni di vita drammaticamente impoverite. Vite che potrebbero certo divenire anche spinta progettuale, ma che per lo più si frantumano nella massa di coloro che hanno perso ogni speranza di rappresentanza e che però finiscono per delegare il proprio destino, come accade qui e là nel mondo, al pifferaio magico di turno.

Ma tutto ciò indica che siamo confrontati ormai con un conflitto radicale, un conflitto che attiene alla natura e alla possibilità stessa di una convivenza civile, di una democrazia, del senso medesimo della polis. Senza la ricostruzione di questo senso, di questo ideale, senza una sinistra che si faccia carico ora, in modo urgente, di questa frattura del tempo storico in cui viviamo, rischiamo davvero l’abisso. Il termine frattura del tempo storico non è scelto a caso: penso davvero che siamo dinanzi ad una accelerazione della storia, al rischio di una catastrofe che si assomma ad altri catastrofi già avvenute e che stanno avvenendo e che gli sforzi per padroneggiare tutto ciò possono miseramente fallire.

Ma come fare fronte a questa frattura? Ormai è chiaro che il tentativo di far fallire la proposta politica, al di là delle differenze o dei dissensi anche interni al nostro campo, che dovremmo considerare, al di là degli usi in termini di conflitto personale, del tutto legittimi, contiene un progetto ben più ampio, la sconfitta della sinistra e la sostituzione di un blocco sociale autoritario articolato intorno alla liberazione di ogni desiderio regressivo, di uno slegamento massiccio e definitivo di un legame sociale che sarà costruito – nel progetto della destra- intorno alla paura , all’odio, al rifiuto del limite oppure- nel progetto grillino- nell’instaurazione di una sovranità costituita intorno a qualche votazione on line che mima la democrazia e che è solo un modo aggiornato per trasformare la dimensione tendenzialmente orizzontale della rete in un imbuto in cui, alla fine, troveremo un tribuno autorizzato a scagliare anatemi, costruire nuovi fanatismi, dando potere al “ si dice”, al “ si narra”, al “tutti ladri”, “ al siete circondati”, una sorta di godimento illimitato della dissoluzione. Questa sarebbe davvero una frattura del tempo storico, non una crisi qualunque.

Per questo, la sinistra dovrebbe essere in grado di scorgere ciò che si presenta in realtà come un progetto di disgregazione radicale dei codici condivisi, delle forme di rappresentanza democratica e della politica come traduzione, e che apparentemente, ma solo apparentemente, trova una qualche riunificazione più o meno simbolica intorno al no e alla sconfitta del partito democratico. E tuttavia: può essere in grado di farlo una sinistra spaccata, priva a volte di un progetto ideale chiaro, incapace di riconoscere gli errori che hanno accompagnato la sua storia, può questa sinistra ritornare ad essere creduta, essere credibile? Forse, e questa è la mia personalissima prima proposta, una sinistra che aspiri al ristabilimento di un patto fiduciario, dovrebbe essere in grado di partire non dai propri meriti, che pure ci sono, ma paradossalmente dal poter dire: vogliamo riconoscere, dobbiamo riconoscere, che abbiamo fatto innumerevoli errori, che siamo stati anche ciechi e sordi dinanzi a ciò che accadeva, che siamo in difficoltà dinanzi alla complessità del mondo, che ci siamo spesso persi, come accade a tutti gli esseri umani, nella soddisfazione narcisistica del potere, del privilegio, del non ascolto del dolore altrui, ma una cosa possiamo e dobbiamo dirla.

Siamo in grado di capire che abbiamo sbagliato, e cosa abbiamo sbagliato, siamo in grado di ascoltare, siamo, come sinistra, interessati non alla distruzione del legame sociale, ma alla sua costruzione nelle forme e nei modi che ogni tempo affida all’essere umano, siamo interessati alla costruzione di comunità operose dove l’altro non è necessariamente da pensare in termini differenti da noi, perché questo termine rimanda comunque ad una identità da cui l’altro sarebbe il nostro differente. Dobbiamo pensare ormai nei termini di direzioni ramificate, di scarti, deviazioni, vie parallele di sviluppo e di giudizio, di interpretazioni del mondo, di codici di lettura e di comportamento e che questa ricchezza, questa varietà dovrebbe poter essere ascoltata, nella costruzione di molteplici progettualità, dove magari quel punto di vista radicalmente diverso può trovare, grazie alla collettività, una sua possibilità di espressione, magari riconoscendo, nel progetto diverso, un tentativo di espressione di una soggettività.

Dobbiamo, e vogliamo riconoscere, che non viviamo tutti nello stesso spazio e nello stesso tempo, ma che siamo immersi in più tempi, in più mondi e che se vogliamo sopravvivere dobbiamo pensare a forme di comunità civili e politiche in cui si metta da parte l’idea di un giudizio unico, totalizzante, valido per tutti. Dobbiamo, e vogliamo dichiarare, che siamo tesi alla costruzione di una comunità di esseri umani che tenta comunque di riconoscersi nei valori di solidarietà, diritti, civilizzazione, trasformazione, del diritto alla costruzione della propria biografia, alla propria storia e al diritto di raccontarla e che la sinistra è un’articolazione continua della necessità del reale, di ciò che esiste e che a volte, forse troppe però, ci appare come la sola razionalità possibile, e della potenza futurante, cioè creatrice di futuro, o di futuri, dei potenziali possibili che ogni individuo o comunità elabora.

Ma questo ci riporta alla questione da cui sono partito, alla necessità di riconoscere il conflitto, non come guerra o odio per un altro punto di vista, ma campo di forze, e il campo di forze non è -in questo mio modo di riflettere-, che un campo tensionale dove diverse , convergenti o divergenti traduzioni si affollano, è l’istituzione di un luogo in cui ascoltare le reciproche istanze, i diversi e contraddittori bisogni, e la necessità, conseguente, di costruire vocabolari locali, parziali, mutevoli, evitando dunque con forza ed intelligenza di immaginare di parlare con una lingua unica. La lingua unica lasciamola al sogno o all’incubo di altri. Come disse Pasolini nel 1951, in Dialetto e poesia popolare, “il contadino che parla il suo dialetto è padrone di tutta la sua realtà”. Qui, nel parlare i nostri vari dialetti, le nostre diverse lingue ridiveniamo finalmente padroni della nostra realtà, altrimenti espropriata, altrimenti resa unica dal punto di vista del padrone o dei padroni del linguaggio, ovvero di coloro che in pochissimi detengono la totalità dei mezzi di produzione.

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