Perché guardare il primo dibattito Trump vs Biden è stata un’esperienza dolorosa

Guardare in diretta il primo dibattito tra i candidati alla presidenza americana che si affronteranno nelle elezioni del prossimo 3 novembre è stata un’esperienza mentalmente e fisicamente dolorosa.

Il dibattito è stato giudicato il peggiore di sempre da praticamente tutti i commentatori americani e internazionali e ha reso un pessimo servizio al prestigio e autorevolezza del sistema democratico degli Stati Uniti. Tra i tanti, George Stephanopoulos, commentatore politico di punta della rete televisiva ABC, e in passato direttore della comunicazione della Casa Bianca durante la presidenza Clinton, a pochi minuti dalla conclusione dell’evento ha sconsolatamente così commentato: “Parlando da persona che ha guardato dibattiti presidenziali per 40 anni, che ha moderato dibattiti presidenziali, che ha preparato candidati per dibattiti presidenziali, che ha seguito da giornalista dibattiti presidenziali, questo è stato il peggior dibattito presidenziale che io abbia mai visto in vita mia.”

Si prevedeva che Trump per comportamenti già tenuti in precedenza e per indole caratteriale sarebbe stato molto “hot”, aggressivo, ma nessuno si aspettava che lo fosse sino a questo punto. Probabilmente il fatto di essere in significativo ritardo in tutti i sondaggi a sole 5 settimane dall’elezione e soprattutto le notizie pubblicate negli ultimi giorni relative alla sua incredibile storia fiscale lo hanno indotto a un atteggiamento apparso del tutto fuori controllo e probabilmente controproducente nei riguardi dei possibili spettatori indecisi che possono risultare decisivi in questo appuntamento elettorale.

Chris Wallace, il moderatore giornalista della catena televisiva conservatrice Fox News, ha provato a mantenere il dibattito su toni civili senza alcun successo e ha richiamato Trump più volte al rispetto delle regole condivise in precedenza concordate e a non interrompere continuamente Biden e anche il conduttore stesso nei momenti in cui cercava di porre domande o riportare un minimo di ordine.

E i contenuti? Si sono sostanzialmente persi in un torrente di interruzioni, invettive, insulti, attacchi a familiari. Qui e lì qualcosa si è comunque riusciti a capire. Sulla pandemia COVID il Presidente ha definito contro ogni evidenza “favoloso” il proprio lavoro, ignorando Biden che ricordava che gli USA con il 4% della popolazione mondiale hanno avuto – ad oggi – il 20% della mortalità globale.

La gravissima crisi economica che ha causato la perdita di decine di milioni di posti di lavoro è stata giustificata con l’affermazione grossolana e non supportata da dati che se Biden diventasse presidente sarebbe peggio.

Il momento probabilmente più grave del dibattito è stato quando il moderatore ha chiesto al presidente di offrire una chiara parola di condanna dei movimenti suprematisti bianchi che pubblicamente lo sostengono: Trump si è rifiutato di farlo, arrivando al massimo a chiedere al gruppo “Proud Boys”, organizzazione di estrema destra armata, razzista e con tendenze neo-naziste, di “ritirarsi e … stare pronti”, con gli affiliati entusiasti che in tempo reale in rete rispondevano “siamo pronti, Presidente” e annunciavano l’immediato aumento di richieste di iscrizione.

Biden ha cercato di far fronte alla valanga verbale incontrollata del suo oppositore e pure nella oggettiva difficoltà ha avuto diversi buoni momenti, come quando ha parlato del suo programma indirizzato ad affrontare la crisi legata al cambiamento climatico, o quando ha rinnovato la disponibilità ad ascoltare la comunità scientifica per la gestione della pandemia, e soprattutto nelle diverse occasioni nelle quali invece di rivolgersi direttamente a Trump ha scelto di parlare direttamente ai cittadini assicurando che si sarebbe occupato dei loro bisogni e non dei propri. Certo anche il candidato democratico ha perso in alcune occasioni l’aplomb dello statista e ha invitato Trump a tacere, definendolo il peggior presidente della storia e dandogli in più di una occasione del pagliaccio.

Stupisce che sia stato toccato molto brevemente il tema della “creatività” fiscale di Trump che, in base ai documenti appena resi pubblici, per 10 degli ultimi 14 anni non avrebbe pagato alcuna tassa federale personale e per ciascuno degli anni 2016 e 2017 abbia versato allo Stato la modica cifra di 750 dollari. Così come è stato appena affrontato il tema della candidatura a un seggio a vita della Corte Suprema a poche settimane dalle elezioni di una candidata che ha in passato espresso opinioni ultra-conservatrici su temi come la libertà riproduttiva delle donne e su politiche sanitarie cha hanno assicurato assistenza a milioni di americani che ne erano sprovvisti, quando al presidente Obama è stata negata dai Repubblicani l’opportunità di presentare un proprio candidato quando alle successive elezioni mancava più di 1 anno.

Da osservatori attenti cosa possiamo imparare dalla attuale contesa elettorale degli Stati Uniti? Che quello al quale stiamo assistendo è il fenomeno del populismo politico portato alla sua massima espressione: assoluto disprezzo di qualsiasi regola di comportamento pur concordata, mancanza di rispetto non solo politico ma anche umano verso chi la pensa diversamente, demonizzazione sino all’insulto dell’avversario, incapacità totale di riconoscere alcun tipo di proprio errore o inadeguatezza, atteggiamenti antiscientifici di fronte a sfide straordinarie quali la pandemia COVID o i cambiamenti climatici, e – per ultima ma non meno importante – giustificazione e addirittura sostegno implicito ad atteggiamenti razzisti e violenti.

Anche nell’era Trump gli Stati Uniti restano un grande Paese e una grande democrazia e sono in grado di sviluppare gli anticorpi democratici utili a prevenire la pericolosa ulteriore deriva rappresentata da una rielezione dell’attuale presidente. Da parte nostra in Italia e in Europa abbiamo l’obbligo di osservare con attenzione quanto accade sull’altra sponda dell’Atlantico e di imparare a riconoscere il più precocemente possibile analoghi pericoli per le nostre società democratiche, in modo tale da prevenirli o combatterli sul nascere.

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